Così l'anno è finito. È finito con il freddo e il vento e lo Jagermeister, i discorsi impacciati e i racconti di quanto Londra sia uno schifo e di come ti abbia reso più forte, il senso di lontananza che cresceva parola dopo parola, nascosto dalle battute e dalle risate che restavano sulle labbra, ma non raggiungevano gli occhi. È finito ieri l'anno, mentre Johnny Cash mi guardava dalla copertina del libro sulla sua vita che stai leggendo, con la gente nel pub e la musica e le birre, troppe frasi non dette e troppo tempo passato e troppi chilometri, troppi ricordi, tutte cose che hanno scavato una trincea che nessuno di noi si arrischierà mai a superare, perché forse al di là di essa c'è ancora il dolore di ciò che è stato. E mentre te ne andavi sotto la neve che cadeva giù a fiocchi, inspiegabile per Salerno, io sapevo che l'anno finiva in quel momento, che ieri è stato l'ultimo giorno e oggi è solo una formalità trascurabile, come l'appendice di un libro finto che a nessuno interessa leggere, perché le cose importanti stanno nelle pagine che hai già letto. Ciao, e buona fortuna per tutto. Spero che tu abbia davvero la forza di cui parli, e che la vita ti regali tutto quello che vuoi.
Oggi
è quel giorno in cui si fanno i propositi per l'anno nuovo. Per me,
io ho deciso che nel 2015 voglio riprendere a scrivere. Ho riaperto
la cartella dei miei vecchi racconti e ne ho riletti alcuni, mi sono
sorpreso davanti alla loro ingenuità e ho ricordato com'ero quando
li scrivevo, il perché scrivevo, quella cosa che un po' si è persa
ma che può ritornare, anche se diversa. Quest'anno ho finito un
romanzo e ne ho un altro vicino alla conclusione, altri due sono
ancora solo nella testa e aspettano il momento giusto per venir
fuori, ché a comando non so e non voglio scrivere. Ma ho avuto
l'impressione che ci fosse del buono lasciato a metà tra quelle
pagine seppellite in quella cartella dei miei vecchi racconti, come
una moneta sotto la neve, e so che dovrò scavare se me la voglio
riprendere, che dovrò passare attraverso un processo lento, come uno
che deve ricominciare a camminare dopo un incidente che lo ha tenuto
a letto per anni. Tempo ne ho, sigarette anche. Appena torno a
Dublino ne parlerò con il vecchio Ray e vedremo cosa mi dice. Spero
intanto che stia passando delle buone feste.
A
voi ragazzi che leggete questo blog faccio tanti auguri e lascio qui
un mio breve racconto. Non è granché ma mi ha fatto piacere
rileggerlo, spero sia un punto di partenza per l'anno nuovo.
Ancora
auguri, e non bevete troppo stanotte!
E' già successo
“Stavolta ce la faccio” pensava
Piero arrancando sulla salita della collina di San Eustachio, la
schiena curva sotto il sole e le gambe che pompavano sui pedali.
“Ce la faccio, li ho staccati tutti
di almeno un chilometro, nemmeno li vedo più. Michele Sorrenti,
Giacomo De Giovannis, e quel buffone del figlio della tabaccaia che
vince lui ogni anno e poi va a fare la ruota in piazza come un
pavone. Voglio vedere, adesso, se diranno ancora che sono un
rammollito.”
La bici nuova, comprata con il
sacrificio di sei mesi di lavoro, era in carbonio leggerissimo e
sembrava volare. La salita era terribile, ma Piero si era allenato bene e
aveva dalla sua il carburante di cinque anni di sconfitte, sangue
acido e sfottò duri da digerire, così a mollare non ci pensava
nemmeno. Non si sarebbe fermato per niente al mondo, a costo di
arrivare al traguardo con il cuore spaccato in due. Non stavolta. Non
così vicino a quella rivincita sognata per tanto tempo.
Su in paese, alla fine di quell'infame
striscia d'asfalto che tante volte lo aveva umiliato costringendolo a
smontare di sella e proseguire a piedi, era già tutto pronto per la
festa: il sindaco aspettava impettito con la targa di platino
sottobraccio, i paesani chiacchieravano cercando d'ingannare l'attesa
e i monelli si rincorrevano sul sagrato della chiesa disturbando
l'orchestrina che provava ad accordare gli strumenti. Le ragazze
attendevano in piccoli gruppi facendosi aria con i ventagli,
infiocchettate come bomboniere nei vestiti più belli, e parteggiavano
per questo o quel concorrente. Di tanto in tanto si avvicinavano
all'amica del cuore, bisbigliavano il nome del favorito e si
ritaevano con una risatina che increspava di tenue malizia le belle
labbra appena turgide di rossetto. Piero sapeva che nessuna di loro
tifava per lui, immaginava che neppure sapessero che s'era iscritto
anche quell'anno, ma si diceva che le cose stavano per cambiare.
Quando l'avrebbero visto sfrecciare con le braccia alzate sul
traguardo, sudato e scarmigliato per la gran fatica, e quando poi
avrebbe preso la targa e l'avrebbe sollevata in aria assieme a un
mazzo di fiori, allora si sarebbero tutte accorte di lui. Che ressa
avrebbero fatto per invitarlo al ballo di fine estate, e come se
lo sarebbero conteso alla sagra della castagna, quando si eleggeva la
coppia più bella tra quelle dei giovani di tutto il paese! Piero il
solitario, Piero il perdente, Piero che prendeva i calci in culo da
tutti stava per scomparire per sempre come una frase sgrammaticata da
una lavagna. Al suo posto sarebbe arrivato, in sella a una bici rossa
fiammante, un ragazzo nuovo che tutti ammiravano e rispettavano.
Piero. Quello che aveva vinto il gran premio di San Eustachio.
Era solo una corsetta di campagnoli, ma per lui aveva un valore
incommensurabile. Quando sei lo zimbello di un paese di seicento
anime o provi a schiodarti di dosso quella nomea finché sei in tempo
o ci convivi finché non crepi, e siccome Piero era giovane e non
voleva passare i prossimi sessant'anni a essere deriso sbuffava,
sputava e stringeva i denti su quella salita.
Arrivato a metà strada, dove le file
degli alberi si aprivano sulla distesa sottostante di campi e cascine
bianche, gettò lo sguardo a occidente e vide la sua casa. Gli sembrò
di distinguere suo padre seduto sotto il portico, con la pipa in
bocca, che leggeva il giornale. Anche quell'anno non era andato a
guardare la corsa, per risparmiarsi lo scorno del figlio che arrivava
sempre ultimo. Ah, come sarebbe rimasto sorpreso nel vederselo
ritornare a casa con il primo premio, non sarebbe stato più nei
calzoni per la contentezza. Se ne sarebbe vantato al bar e al lavoro,
prendendosi una bella rivincita su tutte quelle canaglie che
l'avevano sempre offeso. Per la prima volta sarebbe stato fiero di
lui, e avrebbe camminato a testa alta.
Indietro non c'era nessuno. Piero si
chinò sul manubrio e trasse da se stesso le forze residue per vincere
la spossatezza, bestemmiò santi e pregò diavoli affinché gli
concedessero un altro poco di forza, chiuse gli occhi e per un tratto
andò avanti senza guardare la strada. Distrutto, mise mano alla
borraccia e l'aprì: quattro gocce d'acqua, le ultime, gli piovvero
sulla lingua quasi a volerlo prendere in giro. Era davvero allo
stremo a quel punto, un uomo solo contro chilometri di dolore.
E poi, improvvisamente, il mondo
collassò e si spense. Non del tutto, naturalmente, diciamo che passò
dal technicolor al bianco e nero. Diciamo che il sole scomparve, e
che il cielo cominciò a rombare e gemere, e il vento a ululare come
una vecchia pazza moribonda. L'aria fu attraversata da vibrazioni
tremende, una scarica elettrostatica di potenza inaudita, ma neppure
questo riuscì a fermare Piero. Testardo come un mulo, troppo
determinato perfino per spaventarsi, andò avanti cercando di non
guardare. Qualunque cosa fosse doveva finire prima o poi, si disse.
Il paese non era lontano, e quella specie di tempesta non poteva
durare per sempre.
Il paese gli comparve davanti tutt'a un
tratto, solo che era deserto e devastato, un cimitero di ruderi
informi che ricordavano solo vagamente le case che lui conosceva e
che aveva visto da lontano appena mezz'ora prima. Qualche muro
portante svettava su un mucchio di detriti come una gigantesca
lapide. La croce del campanile giaceva al suolo spezzata. L'insegna
del negozio della tabaccaia era un mosaico di schegge impossibile da
ricomporre. Giacche, maglie, pantaloni e scarpe erano abbandonati
dappertutto, dei loro padroni non c'era traccia da nessuna parte. Su
quella tetra desolazione il cielo piangeva pesanti scrosci di pioggia
maleodorante, cancellando i solchi che la bici tracciava sulla strada
verso il traguardo. Adesso Piero aveva paura.
Costeggiò mozziconi di edifici e
rimasugli di marciapiedi, ma non incontrò nessuno. Un paio di volte
gli parve di notare strane sagome sui muri, ma non si avvicinò per
guardare. Si fermò invece sotto il portico di casa sua, atterrito
dall'ombra di suo padre stampata sul muro del portico. Sembrava seduto,
con il giornale in mano e la pipa in bocca come l'aveva visto poco
prima dalla salita, ma non era lui, era solo la sua sagoma nera contro la pietra. C'era anche la sedia, vuota, e c'erano i suoi
vestiti sparpagliati dappertutto, ma mancava il corpo e non riusciva
a capire dove fosse finito. Piero non sapeva spiegarsi quello spettacolo, e si aggrappava
alla bicicletta come se temesse di vedersela scomparire da sotto il
sedere da un momento all'altro.
Un rumore lo spinse a voltarsi. Dietro
di lui c'era una piccola figura intabarrata in uno scafandro bianco,
che sembrava fissarlo. Non vedeva la faccia, perché il vetro del
casco era traslucido, ma si sentiva addosso uno sguardo curioso che
lo metteva a disagio. Restò a fissarlo senza proferire parola, e
sebbene non li dividessero che pochi metri Piero ebbe la sensazione
che fossero disperatamente lontani, intrappolati in mondi diversi che
si sfioravano senza collidere. Uno spasimo atroce gli regalò
l'improvvisa consapevolezza di ciò che stava vivendo, un brivido gli svuotò le gambe di ogni energia. Quando parlò
la sua voce era un gorgoglio di lacrime sepolto in una gola senza
saliva.
– Quando succederà? –
chiese tremando, le mani strette sul manubrio quasi a volerlo
srdadicare dal telaio. La figura non rispose. Si voltò e corse
via a gambe levate. Un attimo dopo era sparita dietro un ammasso di
calcinacci, lasciandolo solo con il suo incubo.
Il mondo tornò a colori, e Piero tornò sulla sua
salita. Oramai era alla fine, e gli bastarono poche pedalate per
tagliare il traguardo e vincere. Le ragazze lo baciarono, il sindaco
gli consegnò la targa, la banda intonò un motivetto allegro e
ballabile. Arrivò perfino suo padre, richiamato dal gran chiasso,
con la pipa stretta tra i denti e il giornale sottobraccio, e per la
prima volta da quando era stato un bambino lo abbracciò forte. Piero
si sforzò di sorridere, ma dentro di lui era morto qualcosa.
Sembrava che tutto ciò per cui aveva lottato poco prima, mentre
sgobbava sulla collina, non significasse più nulla, che ogni cosa
avesse perduto la sua ragion d'essere. Sulla prima pagina del
giornale di suo padre, in un trafiletto cui non s'era voluto dar
troppo risalto, riuscì a sbirciare un pezzo d'articolo in cui si
parlava di relazioni internazionali tese tra l'Italia e l'ex-alleato
americano. Volse lo sguardo da un'altra parte e si specchiò nel
platino della targa. La sua espressione pallida e spaurita,
terribilmente vuota come se il mondo gli si fosse sgretolato attorno,
era la stessa che aveva visto riflessa nel casco della figura
incontrata tra le macerie.
******
– Allora, vi è piaciuta la gita? – stava chiedendo
la maestra alla scolaresca, sull'hoverbus che li riportava in città.
– Ricordate che bisogna conoscere anche le tragedie della nostra
storia per... sì, Clyo?
Clyo si alzò con gli occhi spalancati, scosse il capo e
si fregò nervosamente le mani.
– Ho
visto un signore, nella terra distrutta. – disse –
Stava sopra uno strano affare a due ruote. Mi ha parlato.
I compagni di classe cominciarono a
ridere, ma la maestra impose il silenzio.
– Clyo, come puoi aver visto
qualcuno? –
sorrise. – C'eri anche tu quando ho parlato degli effetti della
bomba, e come ho detto non sopravvisse nessuno. Da allora, e ti parlo
di circa duecento anni fa, non ci si può spingere in queste zone se
non protetti dalle tute antiradiazioni, e soltanto per poche ore alla
volta. Non puoi aver incontrato un uomo.
– Ma
io l'ho visto! – protestò la bambina. I compagni risero più
forte.
– Va bene, Clyo, va bene, l'hai visto. Adesso però
vogliamo parlare di cose più serie? Chi mi sa dire com'era composta
la bomba, e perché fu scelto di sganciarla proprio su questa parte
del paese?
Molte mani si alzarono, ma tra esse non c'era quella di
Clyo. Lei odiava essere presa in giro, e odiava ancora di più quando
la trattavano con condiscendenza per farla stare tranquilla. Ripensò
all'uomo sullo strano arnese, alla sua faccia zuppa di sudore e a
quegli occhi sgranati, vitrei, a quelle mani serrate che tremavano
forte mentre parlava.
“Quando succederà?” le aveva chiesto, sporgendosi
in avanti fin quasi a toccarla.
– È già successo – rispose lei tirando fuori il
quaderno dei giochi. Dopodiché prese i colori e si mise a disegnare
una bicicletta.
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