lunedì 23 marzo 2015

Peaky Blinders - La storia vera, la leggenda, la serie TV

Così è arrivata la primavera, io sono sopravvissuto a San Patrizio e la vitaccia, più o meno, è sempre la solita. Con l'arrivo della primavera le giornate si sono allungate e si son fatte più calde, il sole splende e le ragazze vanno in giro già seminude, il che è inconfutabilmente la prova più lampante che abbiamo dell'esistenza di un Dio benevolo. 

Il posto dove lavoro si chiama Ballycoolin Business Park, ed è circondato da un parco verde. Ci sono centinaia e centinaia di bellissimi conigli, ciccioni e teneri, che passano la giornata a mangiucchiare l'erba, rincorrersi e scavare tane. Siccome sono conigli si accoppiano un sacco di volte all'anno, così di tanto in tanto nascono nuove cucciolate di piccoli che sono ancora più supermorbidi dei genitori, minuscoli ammassi di pelo che ti guardano con quegli occhioni innocenti e ruminano con dei musetti che ti fanno venir voglia di prenderli e strapazzarli di baci.
Mentre lavoro guardo i conigli nel prato fuori dalla finestra e mi sembra che il mondo sia un posto bello, che ogni cosa abbia una sua logica e tutto sia stato creato con uno scopo ben preciso, perfino io.
Ma questa scena bucolica dei conigli che mangiano, giocano e scopano felici è spesso interrotta da un avvenimento di una violenza inaudita: all'improvviso, dal nulla, arrivano di gran carriera dei cani randagi e iniziano a dare la caccia ai piccoli e indifesi animaletti. Questi cani rognosi sono affamati e inferociti da una vita passata in strada, cacciano in branco come lupi, con una strategia precisa, sono organizzati. Un attimo prima nel parco c'è una pace da paradiso terrestre, un istante dopo si scatena l'inferno. I cani braccano i conigli, li intrappolano nei cespugli, li sbranano e li fanno a pezzi. I piccoli fuggono terrorizzati, le madri sono combattute tra l'istinto di conservazione e quello genitoriale, non sanno se mettersi al riparo o proteggere i cuccioli. I cani non mollano fino a quando non hanno preso qualche preda; chiudono ogni via d'uscita, si chiamano e coprono ogni spazio di terreno come uno squadrone della morte in un raid notturno nelle Favelas. I conigli sono stati creati da un Dio benevolo ma un po' smemorato che si è dimenticato di fornire loro la benché minima arma di difesa. E allora scappano più veloce che possono e attraversano la strada che taglia in due il parco,  finendo maciullati sotto le auto e i bus che passano di lì. Oppure si paralizzano per la paura e vengono mangiati, a qualcuno scoppia il cuore per il terrore e lo sforzo della corsa. Noi guardiamo queste scene dalla finestra, e c'è sempre qualcuno che commenta. C'è chi si copre gli occhi e chi guarda con un morboso interesse, chi incita i conigli alla fuga e chi invece parteggia per i cani sostenendo la teoria darwiniana della sopravvivenza del più adatto.
"Fuck, di nuovo i cani!"
"No, poveri coniglietti!"
"Andiamo ad aiutarli, prendiamo pietre e bastoni!"
"Ci licenziano se usciamo."
"Andrei io, ma ho la pausa pranzo."
"Perché nessuno fa nulla? Dov'è la security?"
"Ragazzi, ma non scassate il cazzo, è la natura che fa il suo corso."

Quest'ultima frase, pronunciata spesso dai più nichilisti del gruppo, è vera. I cani non sono cattivi, fanno solo quello che è nella loro natura. Devono nutrirsi, sanno che lì ci sono i conigli e vanno ad ammazzarli. Non c'è malvagità nel mondo animale, le più efferate scene come questa sono totalmente giustificate perché mosse solo dall'istinto naturale. Non c'è odio, non c'è vendetta, non c'è gratuita violenza. I cani di Ballycoolin non sono esseri umani. Uccidono perché devono sopravvivere, e quindi non si può incolparli.

L'essere umano, invece, uccide per un sacco di motivi. Uno di questi è la sete di potere, l'ambizione, la volontà di prevaricare i suoi simili. Questa storia è ben raccontata in Peaky Blinders, una serie TV britannica uscita finora in due stagioni da sei episodi l'una che sono stati trasmessi da BBC Two.




 La serie è ambientata a Birmingham alla fine della prima guerra mondiale e segue le vicende della gang dei Peaky Blinders, realmente esistita. Il nome della banda deriva, stando alla leggenda, dalla peculiare arma che adoperavano nelle risse da strada: pare infatti che usassero cucire delle lame di rasoio nelle visiere ("peaks" in inglese") dei loro cappelli, e che utilizzassero appunto i copricapi come un'arma per sfregiare, accecare e uccidere. Non si sa se sia vero oppure no, di certo invece c'è che la gang aveva uno stile d'abbigliamento assolutamente peculiare: i membri erano immediatamente riconoscibili per il fatto di indossare berretti, cravatte, soprabiti lunghi e bantaloni stretti, un vestiario sicuramente elegante che non passava inosservato. Anche le loro donne amavano vestire bene, adornandosi con perle e merletti. Il termine "Peaky Blinders", a quanto pare, divenne così famoso da passare dall'indeficazione una specifica gang a tutte quelle che in quel periodo infestavano Birmingham. 

 Nella foto: i veri Peaky Blinders

La serie inizia con i tre fratelly Shelby che ritornano in Inghilterra dopo aver combattuto la guerra. Tommy (Cillian Murphy), Arthur (Paul Anderson) e il giovane John (Joe Cole), vogliono rimettere insieme la gang e impadronirsi del racket delle corse di cavalli a Birmingham. In una città cupa, crepuscolare, pericolosissima, scossa da tumulti anarchici e comunisti, aiutati dalla risoluta zia Polly (una bravissima e intensissima Helen McCrory), i tre innescheranno una spirale di violenza che li porterà a scontrarsi con le altre gang che lottano per lo stesso obbiettivo, finendo inevitabilmente con il fronteggiare organizzazioni più grosse e potenti di loro, prima tra tutte l'I.R,A. Nella seconda stagione faranno il passo più lungo della gamba, spinti da una sete di potere che li inebria come un liquore cattivo, e la guerra per la supremazia raggiungerà vette di brutalità senza pari, degenerando in un fiume di sangue da cui nessuno potrà salvarsi.

I personaggi di questa serie sono molto ben caratterizzati. Tommy è il deus ex machina, il protagonista, la mente che muove tutto. Intelligente, freddo, divorato da un'ambizione senza fine, ricorda per molti aspetti l'Enoch Thompson di Boardwalk Empire. Però Tommy non è un senatore, è nato nei sobborghi lerci di Birmingham e invece di avere scagnozzi che gli fanno il lavoro sporco se la sbriga in prima persona, rischiando la pelle in ogni occasione. I suoi sentimenti sono morti, Tommy vive per questo sogno di dominare Birmingham e diventare il re della strada, tutti lo temono ma pochi lo amano, e quelli che sono amati da lui sono anche di meno. Le cose cambieranno quando incontrerà una donna che manderà in pezzi le sue sicurezze. Sarà in quel momento che il duello tra lui e l'ispettore Campbell (Sam Neill) si sposterà da un piano meramente "professionale" (criminale contro poliziotto) a quello personale di rivali in amore. 

Sam Neill, dicevo. Grandissimo attore, grandissimo il personaggio che interpreta. Campbell è un uomo patetico, viscido, che nasconde tutte le sue insicurezze e le sue frustrazioni dietro la facciata di uomo di legge esemplare. E' un cattivo di quelli veri, con molte sfumature, tratteggiato davvero alla grande e capace di una comicità involontaria che strapperà molte risate. La guerra personale che ingaggia con Tommy può finire solo con la morte di uno dei due. La brama di prevaricare, la malvagità, l'odio che li avvelena è uno degli aspetti più spaventosi della natura umana. Altro che i cani di Ballycoolin.

Arthur, dal canto suo, è pazzo. Gli orrori visti in guerra lo hanno trasformato in un animale capace di comunicare ciò che sente solo attraverso la violenza, uccidere è ormai l'unica cosa che sa fare e per tenere a bada i suoi demoni spegne decine di vite. Ma non è cattivo. E' solo disturbato. Arthur Shelby è la prova di quanto la guerra possa far male a chi vi sopravvive, trasformando un essere umano in un mostro che si porta dietro i suoi fantasmi con la consapevolezza di doverci convivere per sempre. Arthur è la perfetta controparte di Tommy. Laddove l'uno è bestiale, istintivo, esagerato in ogni cosa, l'altro è calcolatore, gelido, misurato. Il loro rapporto è ben sviluppato nella serie, finendo con l'essere un altro dei molti punti di forza dello show. 

Un plauso alle musiche e alla regia, anche: la colonna sonora rock dona alle risse e agli ammazzamenti un gusto davvero particolare, mentre la camera compie ogni tanto evoluzioni che ci presentano la scena in una versione moderna da "videoclip" che onestamente ho molto gradito. La regia e le musiche lasciano dunque la loro impronta conferendo un valore aggiunto alla sceneggiatura, il che è un bene perché c'è sempre da esser contenti quando chi sta dietro a una produzione non si limita a fare il minimo sindacale. 

Consigliato. Molto. Peaky Blinders è un'epopea britannica di inizio '900 che soddisferà gli amanti di Gangs of New York e Boardwalk Empire, una serie tecnicamente valida e ben pensata, con ottimi attori. 

Credo sia tutto per oggi. 
E ora scusatemi, ma devo vestirmi, prendere la mazza da baseball e uscire. Ho promesso a Papà Coniglio che l'avrei aiutato a difendere la sua famiglia dai cani. 
Ci sarà del sangue, oggi, sull'erba di Ballycoolin.


giovedì 12 marzo 2015

"Blindness" di José Saramago

Ci sono delle cose in ballo, ed è un bene. Cose in ballo nella mia vita che si svolge nel mondo fuori, coinvolgendo gli altri esseri umani, e in quella che continua nella mia testa, le solitarie speculazioni e battaglie contro i mulini a vento e sogni e seghe mentali che danno all'esistenza un motivo per essere portata avanti. Ne parlerò forse più in là, per ora voglio solo dire che va bene così. Mi ero posto degli obbiettivi, pian piano alcuni sono in via di raggiungimento, altri sono solo in embrione ma con il tempo potrebbero realizzarsi, io non ho fretta. La fretta non è mai una buona amica, bisogna fare le cose un passo alla volta. 





Una delle cose di cui sono contento è che sono tornato a leggere parecchio. Leggo libri horror e libri thriller, libri brutti e libri fantstici, libri che nessuno conosce e libri che sono dei classici senza tempo che ognuno, nella sua vita, dovrebbe leggere per provare emozioni, riflettere, arricchirsi un po' dentro perché sono dei piccoli tesori. Uno dei libri appartenenti a quest'ultima categoria è Blindness (Cecità nella versione italiana), del premio Nobel José Saramago. Saramago risulta subito simpatico per il fatto di non aver peli sulla lingua; dall'alto di una cultura sopra la media e di un'esperienza consolidata nello studiare i fenomeni dell'esistenza umana non ha remore nell'emettere duri giudizi sul mondo contemporaneo e non gliene frega nulla di restare in una posizione neutra, piuttosto dice quello che pensa. Ecco un estratto di una sua intervista rilasciata nel 2009 a El Pais, intitolata "La cosa Berlusconi":

"Non vedo come al­tri­menti la po­trei chia­mare. Una cosa pe­ri­co­losa, una cosa che or­ga­nizza fe­ste e orge. Que­sta cosa, que­sta ma­lat­tia, que­sto vi­rus mi­nac­cia di co­sti­tuirsi come la morte mo­rale del paese di Verdi se un ri­gur­gito pro­fondo non verrà dalla co­scienza de­gli Ita­liani prima che il ve­leno non cor­rompa le vene e non atro­fizzi il cuore di uno dei paesi eu­ro­pei più ric­chi di cultura."

 Mitico, José! Purtroppo sono passati sei anni e siamo messi peggio di prima...

Blindness è forse il romanzo più celebre di Saramago, ed è un romanzo che va letto. La trama, semplice quanto funzionale all'intento dell'autore, è questa: un giorno, senza alcuna ragione apparente, l'umanità diventa cieca. Si tratta di una cecità strana, totalmente bianca, che si stende davanti alle palpebre di chi ne è colpito come un'alba eterna. Il governo non sa assolutamente cosa fare e reagisce nell'unico modo che da sempre conosce: la repressione. I ciechi vengono internati in prigioni e altri luoghi atti alla detenzione mentre l'epidemia si propaga, con il passare del tempo anche gli esponenti delle istituzioni perdono la vista e il mondo precipita nel caos assoluto. La lotta per la sopravvivenza regredisce ai livelli della preistoria e i più elementari principi morali si sciolgono come neve al sole di fronte alle più pressanti necessità del corpo. Il romanzo segue le vicende di un gruppo di ciechi, tra i primi a essere colpiti dal "Male Bianco": c'è il primo uomo a essere divenuto cieco, c'è un vecchio con una benda sull'occhio, c'è un oculista, ci sono una bellissima prostituta e un ragazzino che ha perso la madre. Tutti sono guidati dalla moglie dell'oculista, unica superstite alla cecità, l'unico paio d'occhi ancora funzionanti in tutto il pianeta.


Prima osservazione: lo stile e la forma. Saramago se ne sbatte abbastanza delle convenzioni strutturali in letteratura, utilizzando un dialogo che definire "libero" è ancora poco. Le frasi dei protagonisti non sono segnate da virgolette né separate dagli "a capo", fluiscono nel testo assieme al resto e sono solo delimitate da virgole e lettere maiuscole. Conferiscono ai dialoghi una natura caotica, incalzante, convulsa, come se il parlare dei ciechi fosse diverso da quello di chi ci vede. Come se i ciechi avessero perduto la capacità di riconoscere le pause, le intonazioni, le regole stesse dell'atto comunicativo. Eppure sono dialoghi che possiedono una carica emotiva fortissima, spesso poche parole ci svelano un aspetto fino ad allora sconosciuto di un personaggio, ce lo fanno vedere sotto una luce differente e amare di più. Non ci sono descrizioni fisiche in Blindness: il corpo non ha più alcuna importanza in un mondo di ciechi, ognuno è diventato la propria voce, null'altro. Udito, tatto, gusto e olfatto devono sostituire la vista, il senso forse più immediato e importante nell'esistenza umana. 

La perdita della vista è la perdita della capacità di essere umani. Blindness è la storia della fine della civiltà, raccontata in una città senza nome attraverso le vicende di personaggi senza tratti somatici, identificati non per il loro nome proprio ma solo attraverso aggettivi e sostantivi (Il Primo Cieco, Il Vecchio con la Benda, Il Ragazzino Strabico, La Moglie Dell'Oculista ecc.). Lenta, ineluttabile, tragica, quest'Apocalisse procede spazzando via i corpi e le anime delle persone, conducendole a una morte miserabile, ma non prima di averle private della loro stessa umanità. Nel manicomio dove i protagonisti saranno rinchiusi assistiamo a ogni genere di violenza e atto aberrante: presa coscienza della loro condizione, intrappolati in un luogo presidiato da soldati terrorizzati dal contatto con questa misteriosa malattia che sembra trasmettersi se anche solo un cieco posa su di te gli occhi, i malati si abbandonano ai più bassi istinti. Il concetto di igiene è uno dei primi a cadere, poi vengono quelli della solidarietà e del rispetto, fino ad arrivare inevitabilmente all'indifferenza nei confronti della sacralità stessa della vita. Il cibo, solo questo importa. Per il cibo si uccide, per il cibo si ruba, e chi possiede il cibo può dettare legge, può decidere cosa chiedere in cambio, come un re con i propri sudditi. 

Si tratta di un'escalation di violenza, soprusi e situazioni disgustose al limite del sopportabile, roba mille volte più sconvolgente di qualsiasi romanzo zombie. Gli odori nauseabondi di cessi tappezzati di merda e urina vi condurranno attraverso corridoi in cui giacciono cadaveri dimenticati che marciscono poco a poco, mentre i ciechi si muovono come ragni disorientati lungo il bordo dei muri, nel tentativo di ritrovare la strada per la camerata in cui sono internati. 

La paura regna sovrana: paura di morire di fame, paura di essere uccisi per un tozzo di pane, paura dei soldati di venire contagiati, cui reagiscono sparando a vista a qualsiasi cieco. La paura annichilisce ogni altro sentimento, scatena la violenza, riduce l'uomo a una bestia che per timore d'essere sopraffatta attacca, oppure paralizza i più deboli condannandoli a morte certa. Tutti hanno paura in questo libro, anche quelli che sembrano detenere un qualche potere non sono che una manifestazione differente di un terrore a cui non si può sfuggire, il terrore di chi ha perso la vista e sa che là fuori non c'è più nessuno che possa fare qualcosa, perché tutti, uno dopo l'altro, stanno diventando ciechi. 

In questo inferno i protagonisti sono gli unici a cercare di restare umani. Provano a organizzarsi, seppelliscono i loro morti, razionano il cibo. A guidarli, come fossero bambini o minorati mentali, è la moglie dell'oculista, l'unica in grado di vedere. La moglie dell'oculista è il martire che si immola sull'altare del sacrificio (fisico, morale e spirituale) per permettere agli altri di continuare a vivere, fosse anche solo per un altro giorno. Eroica, non ci sono altre parole. Soffre più di chiunque altro, si abbassa a umiliazioni innominabili, rischia la vita più volte solo perché sente che è giusto, che la sua condizione privilegiata (la sua maledizione) le ha conferito la responsabilità di doversi occupare di suo marito e degli altri. Non cederà, nemmeno quando il gruppo sarà ridotto a un pugno di individui scheletrici, puzzolenti, sporchi e sconfitti nella mente e nel corpo dal prolungato digiuno. Grazie alla sua vista, che più volte si pentirà di aver conservato per lo scherzo crudele di un Dio cui ormai nessuno più crede, sarà testimone della morte degli innocenti e ei colpevoli, delle brutalità più efferate che si possano immaginare, vedrà il sesso passare da rimedio contro la disperazione a mera merce di scambio, per poi tornare a essere espressione di un amore che nonostante tutto, come un filo d'erba nel ghiaccio, continua a esistere. Sarà la moglie dell'oculista a pagare il prezzo più alto, nel libro. Morire dentro, e vivere nonostante tutto per una missione che nessuno le ha affidato, decisa fino all'ultimo a proteggere gente che a stento conosce e che è comunque condannata a morire. 

Blindness vi potrà deludere nel finale se siete di quelli che cercano la spiegazione. Il romanzo segue solo in parte la struttaura classica della fabula (rottura dell'equilibrio/complicazioni/scioglimento), ma vuole essere (ed è) uno sguardo sulla natura umana. La cecità è un espediente utilizzato da Saramago per scandagliare gli aspetti migliori e quelli peggiori del nostro essere più intimo, quelli che vengono a galla solo in situazioni estreme, che ci portano a rivelarci per gli animali che siamo. In questo, Blindness è un capolavoro, un disperato atto d'accusa contro la nostra natura abbietta e un appassionato grido d'amore verso il bene che nonostante tutto siamo in grado di attingere dai più reconditi recessi della nostra coscienza perfino quando ogni speranza si è spenta. Un libro da leggere senza se e senza ma, per riflettere su ciò che siamo e ciò che potremmo essere. Compratelo, divoratelo, conservatelo e poi rileggetolo di nuovo. Il Male Bianco potrebbe colpirvi domani, e allora avreste perso un'opportunità veramente preziosa. 


giovedì 5 marzo 2015

Rectify - Una storia di rinascita

In 'sto periodo non ho tempo. Non ho tempo per scrivere questo blog, scrivere il romanzo horror/trash/storico/mashup/splattergore che ho iniziato, scrivere negli spazi bianchi di un modulo che devo inviare all'ambasciata per dirgli che le mie tasse le pago già in Irlanda e che col cazzo che le pagherò anche in Italia. Ci provano, loro, a tassarti il lavoro all'estero, ché per fare cassa va bene tutto.

Non ho tempo per cucinarmi un pranzo decente, per pulire casa, non ho tempo per trovarmi una ragazza né per comprarmi i vestiti, ho poco tempo per leggere e meno ancora per guardare serie TV. Non ho tempo per un cacchio di niente, eppure trovo il tempo per tutto. Dormendo lo stretto necessario, mangiando il tanto che basta e capitalizzando al massimo i giorni liberi riesco a scavarmi nicchie di prezioso tempo libero per portare avanti le mie passioni e concedermi i piaceri che distinguono il lavorare per vivere dal vivere per lavorare, così che quando me ne vado a letto non sono quasi mai insoddisfatto della giornata trascorsa. Cazzo, se ne avevo di tempo libero in Italia. Però non lo sfruttavo bene come adesso. Non era qualcosa che avesse un valore, perché era troppo. Adesso è diverso. Ed è meglio. Adesso ogni pagina scritta, ogni capitolo letto, ogni puntata guardata e ogni birra bevuta acquistano uno spessore diverso, non è facile spiegarlo ma è così. Bene, questo per dire che non ho tempo. Ma chi ce l'ha? Nessuno. E allora basta, parliamo d'altro.



A voi sociopatici che leggete questo blog oggi voglio consigliare qualcosa di diverso dal solito ammazza/scopa/vai avanti, vi voglio parlare di Rectify. Si tratta della prima serie prodotta dall'americana Sundance TV, creata da Ray McKinnon e trasmessa finora in due stagioni. Una serie statunitense atipica, di sicuro valore, perfetta per un intermezzo “serio” tra la prima stagione di Z Nation e l'ultima di Hell on Wheels.

 
Rectify segue le vicende di Daniel Holden (interpretato dal bravo Arden Young), che all'età in cui i teenager normali fumano le prime canne e si preparano per il college viene ficcato nel braccio della morte con la condanna infamante di aver violentato e ucciso Hanna, la sua fidanzatina. In carcere, attendendo l'esecuzione, Daniel ci passa diciannove anni, fino al giorno in cui il suo avvocato riesce a ribaltare la sentenza e a farlo tornare libero. È un momento di gioia, ma il difficile arriva adesso. Daniel ha omai quarant'anni e ha perso il contatto con la realtà, il mondo fuori dalla galera è andato avanti senza di lui. Sono cambiati la tecnologia, l'abbigliamento, il modo di intendere i rapporti sociali. Daniel deve recuperare diciannove anni di nulla, scrollarsi di dosso gli orrori visti in carcere, fare i conti con un passato che non ricorda del tutto e spaccare il guscio di cui ha ricoperto i suoi sentimenti per non impazzire.



Non finisce qui. Non può essere così facile. Daniel torna alla sua casa nella cittadina di Paulie, in Georgia, dove tutti si ricordano di lui e dove molti avrebbero preferito vederlo morire nella camera a gas. Alcuni sono genuinamente convinti che sia il colpevole di quell'omicidio, altri di un colpevole hanno bisogno per mettere a tacere il passato o costruirsi una carriera politica. Daniel finisce nelle mire di molti nemici: l'ambiguo Trey (Sean Bridges), che nasconde un aberrante segreto, il meschino senatore Foulkes (Michael O'Neil) che ha fondato la sua scalata al potere sulla sua accusa di colpevolezza, il fratellastro Ted Junior (Clayne Crawford) che è geloso di tutte le attenzioni riservategli. Ben presto diventerà chiaro che a Paulie, quella notte di diciannove anni fa, è successo qualcosa di orribile, ma la verità sarà dura da riportare a galla, anche perché Daniel è più interessato a riprendersi la sua vita che a rivangare il passato.

 Daniel Holden. Un personaggio che, come i suoi familiari, faremo fatica a comprendere a causa dei suoi silenzi e della sua incapacità di relazionarsi col prossimo, salvo poi affezionarci inevitabilmente a lui



Rectify è una storia di rinascita. Faticosa, lenta, dolorosa rinascita. Daniel è un deficiente emozionale. Il braccio della morte lo ha lasciato incapace di esprimere ciò che prova, e questo non lo aiuta nel ricostruire i rapporti con la sua famiglia. La madre Janet (una bravissima Jean Smith Talbot, che si rilancia dopo quella cagata di True Blood) , che dopo la morte del primo marito si è risposata, lo ama più di qualsiasi altra cosa al mondo, ma non sa come prenderlo. Il patrigno Ted (Bruce McKinnon) è un gran brav'uomo, ma non ha idea di come trattare questa specie di bambinone dallo sguardo sperduto. Ma è nel rapporto con sua sorella minore Amantha (una strepitosa Abigail Spencer) che questo sofferto percorso di ritorno alla vita tocca il punto più alto. Immaginate una bambina che si vede portare via il fratello maggiore dalla polizia, con l'accusa di essere un assassino, e che cresce nel suo mito, il mito di questo ragazzo che sa di amare ma che in realtà non ha mai conosciuto. Amantha ha speso gli ultimi diciannove anni in una lotta senza tregua per liberare Daniel, e ora che lui è tornato lo difende dalle maldicenze e dagli assalti dela cittadina con la fierezza di una leonessa che darebbe la vita per i suoi cuccioli. Ma Amantha è anche una persona fragile e piena di insicurezze, e non le risulta facile continuare a combattere ora che Daniel è lì, ora che suo fratello non è più un'idea astratta da cullare nella sua mente, ma un essere umano pieno di problemi che a malapena parla e non sembra in grado di manifestare alcun sentimento. Un plauso a Abigail Spencer, una gran prova in questa serie TV.



Brava e bella, Abigail 
 
Rectify è anche una denuncia della pena di morte. Lo svolgersi degli eventi presenti è alternata da flashbacks della vita di Daniel nel braccio della morte, ed è qui che capiamo come il ragazzo abbia dovuto costruirsi un'armatura di insensibilità per evitare di spezzarsi, di cedere sotto il peso di una vita che in realtà non è vita, ma mero susseguirsi di giorni inutili tutti uguali a se stessi. Il braccio della morte ti fa questo: non è la camera a gas il peggio, è l'attesa. I mesi e gli anni che passano con la consapevolezza che la fine è già scritta sono qualcosa che ti uccide lentamente mentre sei ancora vivo, fino a quando l'esecuzione ti appare come un dono, una liberazione da un'esistenza inutile e grottesca. Daniel ne passa tante in carcere, ma riesce a non cedere. Aiutato dal galeotto Kerwin (Johnny Ray Gill) fa in modo di ricrearsi un mondo all'interno della propria mente dove l'orrore del carcere non può raggiungerlo, trova in se stesso la forza per non uccidersi, non impazzire, non rifugiarsi nella facile scappatoia dei farmaci che fanno dormire. Ne esce più forte, ma totalmente disadattato. Rectify è la storia di come tornerà a essere un uomo dopo che la legge, la sfortuna e il destino hanno ucciso il ragazzino che era.



Consiglio questa serie a chi vuole riflettere ed emozionarsi, a chi un po' si è stufato delle molte serie TV incentrate sull'azione e cerca un diversivo non banale. Una serie dal ritmo non certo frenetico, dove a farla da padrone sono i dialoghi e i rapporti tra i personaggi, ma non priva di mordente grazie soprattutto al mistero della morte di Hanna che pian piano si dipana gettando ombre sporche sulla facciata di perbenismo della cittadina in cui Daniel vive. Rectify è alla soglia della terza stagione, ed è una serie TV onesta e pregna di significati, densa di umanità e capace di evitare stucchevoli sentimentalismi grazie a una sceneggiatura e una costruzione dei personaggi che predilige il realismo delle relazioni umane alla lacrima facile a tutti i costi. Bello, diverso, per certi versi poetico. Un piccolo gioiellino, sperando che sia solo l'inizio di una fruttuosa serie di produzioni della Sundance.


Alla prossima, gente. Ci rileggiamo appena ho un po' di tempo.