giovedì 25 giugno 2015

Una settimana di vacanza, un matrimonio e un libro dimenticato



Certe cose diventano parte della tua vita, quando fai una vita lontano da casa. Che poi, dopo un po', "casa" non sai nemmeno più dov'è, ché non è quella dove vivi al momento e non è più quella che hai lasciato in Italia, "casa" non è da nessuna parte e te la devi ricreare ovunque tu vada. Gli emigranti contemporanei si dividono in due grandi categorie: quelli con la propensione a mettere radici, che arrivano in un posto e cercano di crearsi una vita stabile, e quelli che invece vagano da un paese all'altro, eternamente alla ricerca di qualcosa di migliore, di quello che manca, anche se molto spesso non sanno neppure loro cosa stanno cercando. Io mi sa che appartengo al secondo gruppo, e perciò la vedo brutta. Ché pure le barche più resistenti a furia di navigare nelle tempeste affondano, e la storia di quel tale che voleva vedere il sole da vicino e ci volò sopra con due ali di cera ci insegna che a volte a starsene con i piedi per terra ci si guadagna in salute. Però io sono così, che ci posso fare. All-in con in mano la doppia coppia, se va va altrimenti 'fanculo. Meglio i rimpianti che i rimorsi, chi non risica non rosica e via di altri luoghi comuni sull'argomento, metteteli voi a piacere. Questo per dire che è ancora un periodo di transizione. Vedremo dove mi porterà il futuro, ma per adesso restiamo ancorati all'attualità.



Aeroporto di Bruxelles Charleroi, più o meno uguale a tutti gli altri aeroporti del mondo (tranne forse a quello di Denver , dove ci sono un cavallo dagli occhi di fuoco, strani simboli massonici e inquietanti dipinti che rimandano alla prossima venuta del Nuovo Ordine Mondiale), con i soliti viaggiatori suddivisi in categorie ormai facili da distinguere: il turista solitario, la famiglia di turisti, il gruppo di amici, l'emigrante che spera di trovare fortuna altrove, la coppia di amiconi a caccia di figa, l'uomo d'affari con il laptop sottobraccio e il cellulare sempre all'orecchio, gli sposi in viaggio di nozze, le scolaresche in gita. Anche i rumori e gli odori sono sempre i soliti: ruote di trolley e profumo di caffè, bambini che piangono e fragranze di panini appena sfornati, il rombo degli aerei che partono e il tanfo acre all'interno delle smoking areas, le gabbie di vetro che la civiltà riserva a noi suicidi che attraversiamo questa Terra con una sigaretta inchiodata all'angolo delle labbra. La paura di volare la leggi in faccia a quelli che fumano due, tre, quattro sigarette in mezz'ora. Sul primo volo che presi nel '99 ero come loro, mi fottevo dalla strizza. Oggi mi addormento appena tocco il sedile e mi sveglio con la musichetta dell'atterraggio di Ryanair.



Non vado in vacanza spesso, e quando lo faccio sono un pessimo turista. Non compro cartine o guide, non mi informo sui musei e le attrazioni, faccio tardi la sera e al mattino mi sveglio senza la voglia di camminare, così dei posti in cui vado mi sfugge parecchio. Mi è sfuggito, per esempio, il bambino che piscia di Bruxelles, il Manneken Pis. In compenso ho conosciuto Katrine, di Copenaghen, che è inciampata alle mie spalle mentre aspettavo una birra al bancone e mi ha piazzato una gomitata in un rene che a momenti mi piegava sul pavimento. Dopo ci siamo presentati e abbiamo bevuto Satan Gold per tutta la serata, fino a quando lei ha iniziato a ricevere dei messaggi sul cellulare e si è improvvisamente ricordata di avere un fidanzato da qualche parte in Danimarca. Ci sono rimasto male, ma ho incassato il colpo come fa un gentiluomo, offrendole un'ultima birra e poi accompagnandola fino al taxi. Un vero peccato. Con quegli occhi azzurri e quel sorriso innocente, Katrine avrebbe poturto prendermi a gomitate nei reni per tutto il resto della nostra vita insieme.

Sono un turista pessimo. Riesco a mancare tutti i luoghi di interesse artistico più famosi, ma datemi il nome di un pub in una città in cui non sono mai stato e potete scommettere che lo troverò al primo colpo neanche avessi un cane da tartufi alcolizzato che mi guida verso la meta. Così va sempre a finire che mi ritrovo a un bancone a orari improbabili, spesso con il portatile acceso e il foglio di Word aperto, bevendo e scrivendo mentre gli altri aspettano che gli venga servito il pranzo. Quando poi arriva la sera inizio a fare sul serio. Se la città è anche economica come Bruxelles, allora i giochi sono davvero facili. 

Bruxelles, un giorno che pioveva


Prima del Belgio ci sono stati una notte a Ciampino e due a Cornino, in provincia di Trapani. Ciampino è un noiosissimo buco di provincia in cui alle sette di sera dormono tutti e non merita di essere menzionata per tre frasi di seguito, così sorvoleremo. Cornino, d'altra parte, è un piccolo paradiso in terra, una località di mare sormontata dal suggestivo Monte Cofano, che volendo si può anche scalare se non avete i miei problemi di sciatica. Qui mi sono preso una bella abbronzatura e ho rivisto tanta gente simpatica che conosco da una vita, ma soprattutto ho potuto salutare un carissimo amico che si sposava, brindare con lui alla cena di matrimonio e augurargli una vita più che felice insieme alla sua compagna. Tutto bello, tutto emozionante, volevo esserci e mi ha fatto piacere riuscirci.  Caro Ale, muoviti a sfornare un marmocchio così ci rivediamo lì per il battesimo.




Cornino, Sicilia. Non è uno spettacolo?


Ma ora parliamo del libro del post. Un libro che non finirò mai, che non ho più, che forse qualcuno troverà e leggerà, oppure butterà via. Nessun Dove, di Neil Gaiman.







Nessun Dove l'ho dimenticato nei cessi dell'aeroporto di Ciampino, ricordandomene solo dopo aver messo piede sull'aereo per Trapani. Era un libro la cui lettura si trascinava stancamente da un paio di settimane, non il libro migliore che abbia letto. La storia è quella di Richard, che parte dalla Scozia per andare a vivere a Londra, e lì incontra la sua fidanzata, una donna precisa e rompicoglioni, che lo costringe a una vita fatta di apparenze, cene di lavoro, orari fissi e abitudini castranti. Richard crede di essere felice, quel tipo di convinzione che ci si costruisce per rimanere aggrappati all'unica vita che conosciamo e non ammettere con noi stessi che stiamo sbagliando tutto, ma di tanto in tanto ha come la percezione di essere, diciamo così, irrimediabilmente fottuto. L'ufficio, i colleghi, le serate a teatro, i progetti di matrimonio: tutto questo scompare nel giro di una notte, quando in un muro si apre una porta magica e una ragazzina vestita di stracci cade ai suoi piedi più morta che viva. Richard la aiuta, la porta a casa sua, la accudisce. E scopre il suo nome. Si chiama Porta, e ha il potere di aprire porte (scusate la ripetizione, ma del resto anche il libro ne è pieno) ovunque, con la sola imposizione delle mani. Porta vive a Londra di Sotto, un mondo parallelo abitato da gente strana e magica, dove le varie casate e baronie hanno i nomi delle stazioni della London Tube ed esistono clan di ratti senzienti, pescatori delle fogne e un mercato fluttuante che ogni volta si tiene in un luogo diverso e dove si può acquistare qualsiasi cosa.

Richard si ritrova ben presto costretto a seguire Porta, che sta indagando sull'assassinio della sua intera famiglia. Qualcuno li ha massacrati tutti, e lei è determinata a scoprire chi. Sulle sue tracce, intanto, ci sono i cattivissimi e bizzarri Mister Croup e Mister Vandemar, assassini prezzolati ingaggiati da un misterioso nemico per eliminarla. Con Porta e Richard viaggeranno Hunter, la più capace guardia del corpo di Londra di Sotto, e il Marchese De Carabas, uno strano individuo pieno di trucchi e risorse che alla fine a mio parere si rivelerà essere il personaggio migliore. I nostri eroi dovranno affrontare mille pericoli e compiere alcune missioni, dovranno combattere contro l'orribile Bestia di Londra e alla fine scopriranno di essere stati raggirati, usati come pedine, ci saranno tradimenti e uno scontro all'ultimo sangue e poi...



...e poi non lo so, ragazzi, perché mi mancavano trenta pagine quando ho dimenticato il libro in quel cesso. Fosse stato un libro che mi stava piacendo lo ricomprerei, o al limite ne cercherei l'ebook su Internet, o magari andrei a caccia di quei siti che spoilerano tutto, ma il fatto è che Nessun Dove non mi stava appassionando granché. Colpa di una trama un po' infantile e di una meccanica degli eventi assolutamente prevedibile, di una scrittura talmente semplice da rasentare il banale (colpa della traduzione italiana? Nah, non credo) e di una caratterizzazione dei personaggi non soddisfacente. Da annotare anche il POV ("point of view" per i profani, "punto di vista" per i non anglofoni, forse un giorno vi tirerò un gran pippone sull'argomento) che balla da un personaggio all'altro troppe volte e nel corso perfino della stessa sequenza, una cosa che non sopporto. Situazioni poco credibili (anche in un libro fantastico) e azione ripetitiva completano il quadro. I dialoghi sono addirittura un po' ridicoli. Un esempio per tutti: nello scontro finale, quando il super cattivo annunciua a Porta di voler uccidere Richard anche se lui non ha a che fare con la sua guerra, lei grida, candida come una colomba: "MA È INGIUSTO!"

Cazzo, è ingiusto! Questo sì che farà tornare il carnefice sui suoi passi, la sua coscienza si sta già riempiendo di vergogna. Conosco lo stile di Gaiman e non mi aspettavo certo che Porta gridasse "Figlio di una cagna sifilitica, ridurrò il tuo culo in pezzi talmente piccoli che alla fine dovranno seppellirti una scatola di fiammiferi!", però, insomma...

Tra l'altro avevo adorato American Gods, come detto in questo post, e quindi la delusione è stata ancora maggiore. Nessun Dove è un romanzo scritto prima di American Gods, e ne costituisce in qualche modo l'embrione, la radice, un tentativo non completamente riuscito di ricreare quelle atmosfere e di raccontare un pantheon urbano-mitologico che poi tanto magistralmente verrà sviluppato in quello che ad oggi è ancora ritenuto il capolavoro di questo autore. Rispetto ad American Gods, Nessun Dove presenta lacune nella trama, nei personaggi e nella struttura narrativa in generale, mancano il senso del fantastico e la commistione tra il reale e l'immaginario, il che lo porta a ridursi a una storia senza molto mordente che consiglierei forse solo agli under 15. Peccato, ma tanto di libri da leggere ne ho a caterve e ne ho già iniziato uno che promette di essere una bomba, ne parlerò prima possibile. 

Fine. Domani torno a lavorare e si ricomincia con la vitaccia. Sabato vado a bere e a ballare e a Settembre sono in Italia. E il bambino che piscia, be', lo vedrò la prossima volta. E magari anche Katrine, sperando che abbia mollato quel vichingo importuno che sul più bello ha cominciato a mandarle gli sms.  






lunedì 15 giugno 2015

"El pintor de batallas" di Arturo Pérez Reverte

Rieccoci. Il blog non è morto. È solo che è il mio blog, ed essendo la mia vita soggetta a ritardi, impegni, orari fissi, sbalzi d'umore e cambi di interessi d'ogni tipo, ogni tanto viene lasciato da parte e deve aspettare, a volte pure per un mesetto. Non sono un blogger, non nel senso stretto del termine, quindi mi perdonerete, spero. Che poi se qualcuno 'sto blog lo legge io mica lo so, però lo scrivo lo stesso, via, se non altro per impratichirmi con la tastiera inglese del nuovo portatile.



Oggi parliamo di un libro, va'. Il libro me l'ha regalato un collega (grazie, Renato), l'ho letto in lingua spagnola e il titolo originale è El pintor de batallas (Il pittore di battaglie nell'edizione italiana). L'autore è il bravo e conosciuto Arturo Pérez Reverte, di cui ho apprezzato altri romanzi in passato.

Scrittore, giornalista, corrispondente di guerra, Pérez Reverte ha uno stile semplice, quasi "umile", che rifugge il "colpo a effetto" e i funambolismi stilistici, preferendo incentrarsi sul procedere della storia e la caratterizzazione dei personaggi, sempre attento alla coerenza storica di ciò che narra nei suoi romanzi, sovente ambientati in epoche passate. Questo è più o meno il suo marchio di fabbrica, ma in El pintor de battallas lo troviamo alle prese con un'analisi psicologica più profonda, uno scavare nell'animo del protagonista fino a metterne in luce gli aspetti che gli interessano.






La trama:

Ex-appassaionato di pittura, ex-fotografo di guerra pluriacclamato e pluripremiato, l'ambiguo, solitario e cinico Faulques si è ritirato a vivere in una torre diroccata che affaccia sul Mediterraneo, all'interno della quale sta dipingendo, solo per se stesso, un enorme affresco su muro che rappresenta la guerra. Si tratta di una battaglia che va oltre il tempo, in cui eserciti appartenenti a varie epoche storiche si massacrano in quella che, nella sua intenzione, deve essere la rappresentazione finale di quel che lui chiama "ordine del caos", la matematicità dello sterminio che come un'equazione innegabile trova da millenni la sua risoluzione nell'atto umano di uccidersi l'un l'altro. Faulques è tornato a dipingere dopo aver capito che la macchina fotografica non gli avrebbe mai permesso di cogliere quanto di brutalmente vero e perfetto c'è nella guerra, e ha deciso di riprendere in mano i pennelli per liberarsi da questa ossessione. Ma l'ha fatto anche per cercare di seppellire il ricordo di Olvido, la sua donna e collega fotografa, morta in circostanze tragiche mentre si trovava insieme a lui nei Balcani durante la guerra.

Faulques dipinge, nuota, va in paese a comprare provviste, fino a quando nella sua vita irrompe il croato Ivo Markovic. Si tratta di un ritorno dal passato, un volto da lui fotografato e subito dimenticato durante quella maledetta guerra che sembrava simile a tutte le altre, un volto che gli è pure valso un premio. Markovic è lì per uccidere Faulques, ma prima vuole capire alcune cose, vuole fargli alcune domande. Il romanzo, in circa trecento pagine e con soli due personaggi e mezzo (il "mezzo" è per Olvido, che conosciamo tramite i flashback di Faulques) racconta molte cose e mette parecchia carne al fuoco. 

Recensione:

"Questo libro è lento" ha detto Renato. "Non l'ho finito. Si perde in elucubrazioni, in voli pindarici, è tutto basato sui dialoghi e i flashback."

Da queste sue parole ho dedotto che il libro gli avesse maciullato i testicoli, cosa di cui il buon Peréz Reverte non sarebbe proprio contento, però l'ho preso e l'ho letto lo stesso, e alla fine sono rimasto soddisfatto. El pintor de batallas è un libro con un suo perché e molti significati, un libro che invita a riflettere sull'arte intesa come scopo ultimo e unico della vita, come ossessione che annichilisce ogni altro aspetto dell'uomo. Sì, è lento, ma vale la pena leggerlo. Vediamo perché.



Il protagonista, Faulques, è un nuon-uomo, uno che non vive, ma esiste. Esiste per portare a termine l'affresco e carpire anche solo per un attimo le geometrie nascoste del caos, e per farlo in gioventù si è donato anima e corpo alla più totale rappresentazione del caos stesso: la guerra. Ha visto e fotografato orrori indicibili senza battere ciglio, ha cercato l'inquadratura migliore mentre a pochi passi da lui prigionieri venivano torturati, giustiziati, umiliati prima che gli si togliesse la vita. Con Olvido sempre al suo fianco, è divenuto totalmente insensibile alla morte, al punto che questa sua condizione ha finito per uccidere la donna che amava (o che era convinto di amare). Faulques è un assassino e lo sa, anzi è peggio di un assassino; è un testimone di guerra con il biglietto di ritorno in tasca, uno che va sui luoghi degli eccidi come un guardone andrebbe nei parcheggi a spiare gli altri che scopano. Ha fotografato la morte come altri avrebbero fatto con un tramonto o un paesaggio marino, senza scomporsi, senza cambiare metodo neppure quando la tragedia lo ha toccato personalmente. L'affresco, le geometrie del caos, questo è ciò che conta, e anche quando Ivo Markovic arriva e gli racconta del dolore e delle perdite che ha subito per colpa sua non batte praticamente ciglio.



L'arte, la ricerca di essa, è una maledizione, sembra volerci dire Pérez Reverte. In Faulques vive l'archetipo dell'artista che cessa di essere umano nel momento in cui si sacrifica alla sua ricerca della creazione perfetta, un demone che trasforma la persona in mero attrezzo di carne atto a reggere un pennello, una penna, una macchina fotografica, uno strumento musicale. C'è una critica in questo, o sembra esserci; non si può fare arte in questo modo, non si può attraversare il mondo alla ricerca dell'epifania definitiva e scegliere di ignorare la vita, le storie e le persone che del mondo fanno parte e che quell'epifania contribuiscono a creare. Evitare di farsi coinvolgere, questa è la regola di Faulques. Anche nell'amore, perché l'artista deve mantenere il controllo sempre e comunque. È un perdente Faulques, uno che avrebbe fatto meglio a cercarsi un lavoro dalle nove alle cinque in qualche ufficio, perché tutti i premi vinti e tutte le guerre viste non sono riusciti a fargli capire nulla di quella atroce realtà che Markovic, fantasma di un conflitto disumano come pochi altri, gli sbatte in faccia fumando una sigaretta dopo l'altra mentre ricorda che alla fine della storia lo manderà a dormire coi vermi.



Markovic e Olvido sono i due fantasmi, appunto, che tentano di riportare Faulques indietro, fino alla sua umanità, alle emozioni che ha perso, fino a capire che si poteva e si può vivere diversamente. L'uno è vivo e gli parla di ciò che ha subito per colpa della foto che lui gli scattò, l'altra esiste ormai solo nella sua memoria ("Olvido" in spagnolo significa "oblio", ed è un nome fortemente ossimorico). Markovic e Olvido, parlando a Faulques da piani spaziali e temporali diversi, minano la sicurezza del pittore di battaglie fino a farlo vacillare, fino a fargli comprendere quanto inutile, sciocca, fine a se stessa sia stata la sua ricerca delle geometrie imperscrutabili del caos. L'arte ha un senso fino a quando è inserita nella società, nella vita, fino a quando è pensata e prodotta per essere apprezzata dagli altri. Diversamente, l'arte è masturbazione, ossessione, diventa una gran puttanata a cui nessuno crede più e alla quale nesuno si interessa, la bugia dell' "artista con una missione", dell' "artista totale". Markovic, un ex-meccanico costretto a combattere una guerra fratricida, uno che visto ogni tipo di orrore e subito ogni genere di violenza, spoglia Faulques di questi finti vestiti che s'è cucito addosso, lasciandolo nudo davanti alla sua pochezza prima della notte decisiva in cui i due, nel buio dei boschi intorno alla torre, si confronteranno per l'ultima volta.

Il finale sorprende, ed è assolutamente coerente con quello che Péerez Reverte vuole dirci in questo libro, che a esser lento è lento, ma per il resto è assolutamente meritevole.

Consigliato a chi ha voglia di qualcosa di diverso, e a quanti là fuori si considerano artisti. 

Un saluto. Il prossimo post, si spera, non sarà così lontano nel tempo.