giovedì 25 giugno 2015

Una settimana di vacanza, un matrimonio e un libro dimenticato



Certe cose diventano parte della tua vita, quando fai una vita lontano da casa. Che poi, dopo un po', "casa" non sai nemmeno più dov'è, ché non è quella dove vivi al momento e non è più quella che hai lasciato in Italia, "casa" non è da nessuna parte e te la devi ricreare ovunque tu vada. Gli emigranti contemporanei si dividono in due grandi categorie: quelli con la propensione a mettere radici, che arrivano in un posto e cercano di crearsi una vita stabile, e quelli che invece vagano da un paese all'altro, eternamente alla ricerca di qualcosa di migliore, di quello che manca, anche se molto spesso non sanno neppure loro cosa stanno cercando. Io mi sa che appartengo al secondo gruppo, e perciò la vedo brutta. Ché pure le barche più resistenti a furia di navigare nelle tempeste affondano, e la storia di quel tale che voleva vedere il sole da vicino e ci volò sopra con due ali di cera ci insegna che a volte a starsene con i piedi per terra ci si guadagna in salute. Però io sono così, che ci posso fare. All-in con in mano la doppia coppia, se va va altrimenti 'fanculo. Meglio i rimpianti che i rimorsi, chi non risica non rosica e via di altri luoghi comuni sull'argomento, metteteli voi a piacere. Questo per dire che è ancora un periodo di transizione. Vedremo dove mi porterà il futuro, ma per adesso restiamo ancorati all'attualità.



Aeroporto di Bruxelles Charleroi, più o meno uguale a tutti gli altri aeroporti del mondo (tranne forse a quello di Denver , dove ci sono un cavallo dagli occhi di fuoco, strani simboli massonici e inquietanti dipinti che rimandano alla prossima venuta del Nuovo Ordine Mondiale), con i soliti viaggiatori suddivisi in categorie ormai facili da distinguere: il turista solitario, la famiglia di turisti, il gruppo di amici, l'emigrante che spera di trovare fortuna altrove, la coppia di amiconi a caccia di figa, l'uomo d'affari con il laptop sottobraccio e il cellulare sempre all'orecchio, gli sposi in viaggio di nozze, le scolaresche in gita. Anche i rumori e gli odori sono sempre i soliti: ruote di trolley e profumo di caffè, bambini che piangono e fragranze di panini appena sfornati, il rombo degli aerei che partono e il tanfo acre all'interno delle smoking areas, le gabbie di vetro che la civiltà riserva a noi suicidi che attraversiamo questa Terra con una sigaretta inchiodata all'angolo delle labbra. La paura di volare la leggi in faccia a quelli che fumano due, tre, quattro sigarette in mezz'ora. Sul primo volo che presi nel '99 ero come loro, mi fottevo dalla strizza. Oggi mi addormento appena tocco il sedile e mi sveglio con la musichetta dell'atterraggio di Ryanair.



Non vado in vacanza spesso, e quando lo faccio sono un pessimo turista. Non compro cartine o guide, non mi informo sui musei e le attrazioni, faccio tardi la sera e al mattino mi sveglio senza la voglia di camminare, così dei posti in cui vado mi sfugge parecchio. Mi è sfuggito, per esempio, il bambino che piscia di Bruxelles, il Manneken Pis. In compenso ho conosciuto Katrine, di Copenaghen, che è inciampata alle mie spalle mentre aspettavo una birra al bancone e mi ha piazzato una gomitata in un rene che a momenti mi piegava sul pavimento. Dopo ci siamo presentati e abbiamo bevuto Satan Gold per tutta la serata, fino a quando lei ha iniziato a ricevere dei messaggi sul cellulare e si è improvvisamente ricordata di avere un fidanzato da qualche parte in Danimarca. Ci sono rimasto male, ma ho incassato il colpo come fa un gentiluomo, offrendole un'ultima birra e poi accompagnandola fino al taxi. Un vero peccato. Con quegli occhi azzurri e quel sorriso innocente, Katrine avrebbe poturto prendermi a gomitate nei reni per tutto il resto della nostra vita insieme.

Sono un turista pessimo. Riesco a mancare tutti i luoghi di interesse artistico più famosi, ma datemi il nome di un pub in una città in cui non sono mai stato e potete scommettere che lo troverò al primo colpo neanche avessi un cane da tartufi alcolizzato che mi guida verso la meta. Così va sempre a finire che mi ritrovo a un bancone a orari improbabili, spesso con il portatile acceso e il foglio di Word aperto, bevendo e scrivendo mentre gli altri aspettano che gli venga servito il pranzo. Quando poi arriva la sera inizio a fare sul serio. Se la città è anche economica come Bruxelles, allora i giochi sono davvero facili. 

Bruxelles, un giorno che pioveva


Prima del Belgio ci sono stati una notte a Ciampino e due a Cornino, in provincia di Trapani. Ciampino è un noiosissimo buco di provincia in cui alle sette di sera dormono tutti e non merita di essere menzionata per tre frasi di seguito, così sorvoleremo. Cornino, d'altra parte, è un piccolo paradiso in terra, una località di mare sormontata dal suggestivo Monte Cofano, che volendo si può anche scalare se non avete i miei problemi di sciatica. Qui mi sono preso una bella abbronzatura e ho rivisto tanta gente simpatica che conosco da una vita, ma soprattutto ho potuto salutare un carissimo amico che si sposava, brindare con lui alla cena di matrimonio e augurargli una vita più che felice insieme alla sua compagna. Tutto bello, tutto emozionante, volevo esserci e mi ha fatto piacere riuscirci.  Caro Ale, muoviti a sfornare un marmocchio così ci rivediamo lì per il battesimo.




Cornino, Sicilia. Non è uno spettacolo?


Ma ora parliamo del libro del post. Un libro che non finirò mai, che non ho più, che forse qualcuno troverà e leggerà, oppure butterà via. Nessun Dove, di Neil Gaiman.







Nessun Dove l'ho dimenticato nei cessi dell'aeroporto di Ciampino, ricordandomene solo dopo aver messo piede sull'aereo per Trapani. Era un libro la cui lettura si trascinava stancamente da un paio di settimane, non il libro migliore che abbia letto. La storia è quella di Richard, che parte dalla Scozia per andare a vivere a Londra, e lì incontra la sua fidanzata, una donna precisa e rompicoglioni, che lo costringe a una vita fatta di apparenze, cene di lavoro, orari fissi e abitudini castranti. Richard crede di essere felice, quel tipo di convinzione che ci si costruisce per rimanere aggrappati all'unica vita che conosciamo e non ammettere con noi stessi che stiamo sbagliando tutto, ma di tanto in tanto ha come la percezione di essere, diciamo così, irrimediabilmente fottuto. L'ufficio, i colleghi, le serate a teatro, i progetti di matrimonio: tutto questo scompare nel giro di una notte, quando in un muro si apre una porta magica e una ragazzina vestita di stracci cade ai suoi piedi più morta che viva. Richard la aiuta, la porta a casa sua, la accudisce. E scopre il suo nome. Si chiama Porta, e ha il potere di aprire porte (scusate la ripetizione, ma del resto anche il libro ne è pieno) ovunque, con la sola imposizione delle mani. Porta vive a Londra di Sotto, un mondo parallelo abitato da gente strana e magica, dove le varie casate e baronie hanno i nomi delle stazioni della London Tube ed esistono clan di ratti senzienti, pescatori delle fogne e un mercato fluttuante che ogni volta si tiene in un luogo diverso e dove si può acquistare qualsiasi cosa.

Richard si ritrova ben presto costretto a seguire Porta, che sta indagando sull'assassinio della sua intera famiglia. Qualcuno li ha massacrati tutti, e lei è determinata a scoprire chi. Sulle sue tracce, intanto, ci sono i cattivissimi e bizzarri Mister Croup e Mister Vandemar, assassini prezzolati ingaggiati da un misterioso nemico per eliminarla. Con Porta e Richard viaggeranno Hunter, la più capace guardia del corpo di Londra di Sotto, e il Marchese De Carabas, uno strano individuo pieno di trucchi e risorse che alla fine a mio parere si rivelerà essere il personaggio migliore. I nostri eroi dovranno affrontare mille pericoli e compiere alcune missioni, dovranno combattere contro l'orribile Bestia di Londra e alla fine scopriranno di essere stati raggirati, usati come pedine, ci saranno tradimenti e uno scontro all'ultimo sangue e poi...



...e poi non lo so, ragazzi, perché mi mancavano trenta pagine quando ho dimenticato il libro in quel cesso. Fosse stato un libro che mi stava piacendo lo ricomprerei, o al limite ne cercherei l'ebook su Internet, o magari andrei a caccia di quei siti che spoilerano tutto, ma il fatto è che Nessun Dove non mi stava appassionando granché. Colpa di una trama un po' infantile e di una meccanica degli eventi assolutamente prevedibile, di una scrittura talmente semplice da rasentare il banale (colpa della traduzione italiana? Nah, non credo) e di una caratterizzazione dei personaggi non soddisfacente. Da annotare anche il POV ("point of view" per i profani, "punto di vista" per i non anglofoni, forse un giorno vi tirerò un gran pippone sull'argomento) che balla da un personaggio all'altro troppe volte e nel corso perfino della stessa sequenza, una cosa che non sopporto. Situazioni poco credibili (anche in un libro fantastico) e azione ripetitiva completano il quadro. I dialoghi sono addirittura un po' ridicoli. Un esempio per tutti: nello scontro finale, quando il super cattivo annunciua a Porta di voler uccidere Richard anche se lui non ha a che fare con la sua guerra, lei grida, candida come una colomba: "MA È INGIUSTO!"

Cazzo, è ingiusto! Questo sì che farà tornare il carnefice sui suoi passi, la sua coscienza si sta già riempiendo di vergogna. Conosco lo stile di Gaiman e non mi aspettavo certo che Porta gridasse "Figlio di una cagna sifilitica, ridurrò il tuo culo in pezzi talmente piccoli che alla fine dovranno seppellirti una scatola di fiammiferi!", però, insomma...

Tra l'altro avevo adorato American Gods, come detto in questo post, e quindi la delusione è stata ancora maggiore. Nessun Dove è un romanzo scritto prima di American Gods, e ne costituisce in qualche modo l'embrione, la radice, un tentativo non completamente riuscito di ricreare quelle atmosfere e di raccontare un pantheon urbano-mitologico che poi tanto magistralmente verrà sviluppato in quello che ad oggi è ancora ritenuto il capolavoro di questo autore. Rispetto ad American Gods, Nessun Dove presenta lacune nella trama, nei personaggi e nella struttura narrativa in generale, mancano il senso del fantastico e la commistione tra il reale e l'immaginario, il che lo porta a ridursi a una storia senza molto mordente che consiglierei forse solo agli under 15. Peccato, ma tanto di libri da leggere ne ho a caterve e ne ho già iniziato uno che promette di essere una bomba, ne parlerò prima possibile. 

Fine. Domani torno a lavorare e si ricomincia con la vitaccia. Sabato vado a bere e a ballare e a Settembre sono in Italia. E il bambino che piscia, be', lo vedrò la prossima volta. E magari anche Katrine, sperando che abbia mollato quel vichingo importuno che sul più bello ha cominciato a mandarle gli sms.  






lunedì 15 giugno 2015

"El pintor de batallas" di Arturo Pérez Reverte

Rieccoci. Il blog non è morto. È solo che è il mio blog, ed essendo la mia vita soggetta a ritardi, impegni, orari fissi, sbalzi d'umore e cambi di interessi d'ogni tipo, ogni tanto viene lasciato da parte e deve aspettare, a volte pure per un mesetto. Non sono un blogger, non nel senso stretto del termine, quindi mi perdonerete, spero. Che poi se qualcuno 'sto blog lo legge io mica lo so, però lo scrivo lo stesso, via, se non altro per impratichirmi con la tastiera inglese del nuovo portatile.



Oggi parliamo di un libro, va'. Il libro me l'ha regalato un collega (grazie, Renato), l'ho letto in lingua spagnola e il titolo originale è El pintor de batallas (Il pittore di battaglie nell'edizione italiana). L'autore è il bravo e conosciuto Arturo Pérez Reverte, di cui ho apprezzato altri romanzi in passato.

Scrittore, giornalista, corrispondente di guerra, Pérez Reverte ha uno stile semplice, quasi "umile", che rifugge il "colpo a effetto" e i funambolismi stilistici, preferendo incentrarsi sul procedere della storia e la caratterizzazione dei personaggi, sempre attento alla coerenza storica di ciò che narra nei suoi romanzi, sovente ambientati in epoche passate. Questo è più o meno il suo marchio di fabbrica, ma in El pintor de battallas lo troviamo alle prese con un'analisi psicologica più profonda, uno scavare nell'animo del protagonista fino a metterne in luce gli aspetti che gli interessano.






La trama:

Ex-appassaionato di pittura, ex-fotografo di guerra pluriacclamato e pluripremiato, l'ambiguo, solitario e cinico Faulques si è ritirato a vivere in una torre diroccata che affaccia sul Mediterraneo, all'interno della quale sta dipingendo, solo per se stesso, un enorme affresco su muro che rappresenta la guerra. Si tratta di una battaglia che va oltre il tempo, in cui eserciti appartenenti a varie epoche storiche si massacrano in quella che, nella sua intenzione, deve essere la rappresentazione finale di quel che lui chiama "ordine del caos", la matematicità dello sterminio che come un'equazione innegabile trova da millenni la sua risoluzione nell'atto umano di uccidersi l'un l'altro. Faulques è tornato a dipingere dopo aver capito che la macchina fotografica non gli avrebbe mai permesso di cogliere quanto di brutalmente vero e perfetto c'è nella guerra, e ha deciso di riprendere in mano i pennelli per liberarsi da questa ossessione. Ma l'ha fatto anche per cercare di seppellire il ricordo di Olvido, la sua donna e collega fotografa, morta in circostanze tragiche mentre si trovava insieme a lui nei Balcani durante la guerra.

Faulques dipinge, nuota, va in paese a comprare provviste, fino a quando nella sua vita irrompe il croato Ivo Markovic. Si tratta di un ritorno dal passato, un volto da lui fotografato e subito dimenticato durante quella maledetta guerra che sembrava simile a tutte le altre, un volto che gli è pure valso un premio. Markovic è lì per uccidere Faulques, ma prima vuole capire alcune cose, vuole fargli alcune domande. Il romanzo, in circa trecento pagine e con soli due personaggi e mezzo (il "mezzo" è per Olvido, che conosciamo tramite i flashback di Faulques) racconta molte cose e mette parecchia carne al fuoco. 

Recensione:

"Questo libro è lento" ha detto Renato. "Non l'ho finito. Si perde in elucubrazioni, in voli pindarici, è tutto basato sui dialoghi e i flashback."

Da queste sue parole ho dedotto che il libro gli avesse maciullato i testicoli, cosa di cui il buon Peréz Reverte non sarebbe proprio contento, però l'ho preso e l'ho letto lo stesso, e alla fine sono rimasto soddisfatto. El pintor de batallas è un libro con un suo perché e molti significati, un libro che invita a riflettere sull'arte intesa come scopo ultimo e unico della vita, come ossessione che annichilisce ogni altro aspetto dell'uomo. Sì, è lento, ma vale la pena leggerlo. Vediamo perché.



Il protagonista, Faulques, è un nuon-uomo, uno che non vive, ma esiste. Esiste per portare a termine l'affresco e carpire anche solo per un attimo le geometrie nascoste del caos, e per farlo in gioventù si è donato anima e corpo alla più totale rappresentazione del caos stesso: la guerra. Ha visto e fotografato orrori indicibili senza battere ciglio, ha cercato l'inquadratura migliore mentre a pochi passi da lui prigionieri venivano torturati, giustiziati, umiliati prima che gli si togliesse la vita. Con Olvido sempre al suo fianco, è divenuto totalmente insensibile alla morte, al punto che questa sua condizione ha finito per uccidere la donna che amava (o che era convinto di amare). Faulques è un assassino e lo sa, anzi è peggio di un assassino; è un testimone di guerra con il biglietto di ritorno in tasca, uno che va sui luoghi degli eccidi come un guardone andrebbe nei parcheggi a spiare gli altri che scopano. Ha fotografato la morte come altri avrebbero fatto con un tramonto o un paesaggio marino, senza scomporsi, senza cambiare metodo neppure quando la tragedia lo ha toccato personalmente. L'affresco, le geometrie del caos, questo è ciò che conta, e anche quando Ivo Markovic arriva e gli racconta del dolore e delle perdite che ha subito per colpa sua non batte praticamente ciglio.



L'arte, la ricerca di essa, è una maledizione, sembra volerci dire Pérez Reverte. In Faulques vive l'archetipo dell'artista che cessa di essere umano nel momento in cui si sacrifica alla sua ricerca della creazione perfetta, un demone che trasforma la persona in mero attrezzo di carne atto a reggere un pennello, una penna, una macchina fotografica, uno strumento musicale. C'è una critica in questo, o sembra esserci; non si può fare arte in questo modo, non si può attraversare il mondo alla ricerca dell'epifania definitiva e scegliere di ignorare la vita, le storie e le persone che del mondo fanno parte e che quell'epifania contribuiscono a creare. Evitare di farsi coinvolgere, questa è la regola di Faulques. Anche nell'amore, perché l'artista deve mantenere il controllo sempre e comunque. È un perdente Faulques, uno che avrebbe fatto meglio a cercarsi un lavoro dalle nove alle cinque in qualche ufficio, perché tutti i premi vinti e tutte le guerre viste non sono riusciti a fargli capire nulla di quella atroce realtà che Markovic, fantasma di un conflitto disumano come pochi altri, gli sbatte in faccia fumando una sigaretta dopo l'altra mentre ricorda che alla fine della storia lo manderà a dormire coi vermi.



Markovic e Olvido sono i due fantasmi, appunto, che tentano di riportare Faulques indietro, fino alla sua umanità, alle emozioni che ha perso, fino a capire che si poteva e si può vivere diversamente. L'uno è vivo e gli parla di ciò che ha subito per colpa della foto che lui gli scattò, l'altra esiste ormai solo nella sua memoria ("Olvido" in spagnolo significa "oblio", ed è un nome fortemente ossimorico). Markovic e Olvido, parlando a Faulques da piani spaziali e temporali diversi, minano la sicurezza del pittore di battaglie fino a farlo vacillare, fino a fargli comprendere quanto inutile, sciocca, fine a se stessa sia stata la sua ricerca delle geometrie imperscrutabili del caos. L'arte ha un senso fino a quando è inserita nella società, nella vita, fino a quando è pensata e prodotta per essere apprezzata dagli altri. Diversamente, l'arte è masturbazione, ossessione, diventa una gran puttanata a cui nessuno crede più e alla quale nesuno si interessa, la bugia dell' "artista con una missione", dell' "artista totale". Markovic, un ex-meccanico costretto a combattere una guerra fratricida, uno che visto ogni tipo di orrore e subito ogni genere di violenza, spoglia Faulques di questi finti vestiti che s'è cucito addosso, lasciandolo nudo davanti alla sua pochezza prima della notte decisiva in cui i due, nel buio dei boschi intorno alla torre, si confronteranno per l'ultima volta.

Il finale sorprende, ed è assolutamente coerente con quello che Péerez Reverte vuole dirci in questo libro, che a esser lento è lento, ma per il resto è assolutamente meritevole.

Consigliato a chi ha voglia di qualcosa di diverso, e a quanti là fuori si considerano artisti. 

Un saluto. Il prossimo post, si spera, non sarà così lontano nel tempo.  







venerdì 15 maggio 2015

Banshee: la formula di un successo televisivo

Prima di iniziare, due parole sul banner che vedete nella sidebar del blog: si tratta del mio nuovo romanzo, un pulp/thriller umoristico ambientato nel sud Italia. Chi l'ha letto finora ne è rimasto positivamente impressionato, si tratta anche di un romanzo piuttosto autobiografico per certi versi, differente dalle cose che ho scritto in precedenza e che scrivo di solito. Scazzottate, criminali, droga e situazioni al limite dell'assurdo, roba che qualcuno (forse dopo aver fumato roba buona) ha paragonato a una sceneggiatura di Tarantino e altri all'Ispettore Coliandro di Lucarelli. Se ci cliccate sopra vi porta alla pagina Amazon dove lo potete acquistare in formato ebook a un prezzo decisamente contenuto, e se decidete di farlo mandatemi pure due righe per farvi sapere se vi è piaciuto. Stop alla pubblicità, parliamo della miglior serie TV degli ultimi tre anni. Parliamo di Banshee e dei motivi del suo successo.







Prodotto dalla Cinemax e creato da Jonathan Tropper e David Schickler della Your Face Goes Here, Banshee narra le gesta di un ex-galeotto incarcerato per furto (di cui non conosceremo mai il vero nome) che, scontata la condanna, si reca in una cittadina della Pennsylvania (Banshee, appunto) per rivedere la sua vecchia amante e complice, che adesso ha cambiato nome, uomo e vita. Da qui, fin dalla prima puntata, una serie assurda e convulsa di eventi lo porterà a ritrovarsi a impersonare il defunto sceriffo locale Lucas Hood, e a dividersi tra una vita al servizio della legge e un'altra parallela, in cui continua la sua attività di ladro. La sua indole inquieta lo porterà a farsi un fottìo di nemici di quelli brutti e cattivi, ma brutti e cattivi davvero, mentre tramite flashbacks recuperemo il suo passato e tutto il dolore che ha dovuto sopportare quando era più giovane. Intanto scoprirà anche di essere padre, e dovrà gestire il difficile rapporto con una figlia adolescente e ribelle che fino ad ora ha ignorato la sua esistenza.

Se vi sembra una storia semplice e tutto sommato non tanto originale, be', vuol dire che non avete guardato la serie. A partire da questo plot Banshee si sviluppa in così tante situazioni e sottotrame da costituire una sorpresa continua, un vero capolavoro di sceneggiatura che solo in alcuni brevi punti della seconda stagione accusa piccoli cedimenti, riprendendosi poi alla grande nella terza. Inutile parlare della prima stagione, perché è a mio parere un capolavoro assoluto.



Il cast:

Senza pescare nomi di grido, Banshee si dota di una squadra di attori assolutamente fantastici e perfettamente a loro agio nei ruoli che interpretano. Prendiamo Lucas Hood, interpretato da Anthony Starr: Starr ha tre espressioni davanti alla macchina da presa: quella in cui è incazzato prima di rompere il culo a qualcuno, quella in cui sta per piangere e fa gli occhioni da cerbiatto e quella in cui sorride e gli si vedono tutte le rughe intorno agli occhi. Eppure il personaggio gli calza a pennello, cucitogli addosso con maestria innegabile, al punto che per questo attore sarà difficile intrepetare altri ruoli senza che il pubblico si aspetti di vederlo comportarsi come Hood. 

Hood al termine della scazzottata quotidiana
 

E che dire di Hoon Lee nei panni del gayssimo Job, l'amico di sempre di Hood, mago dei computer, esperto di arti marziali e fanatico di moda? Ogni maledettissima battuta di Lee fa scompisciare dalle risate, al punto che nei pochi episodi in cui non appare la sua assenza si nota eccome, ogni sua singola apparizione sulla scena, espressione facciale o gesto è studiato nei dettagli per conferire profondità al personaggio. 

Job in uno dei suoi outfit più sobri
 

Per non parlare di Ulrich Tomsen (nei panni del boss criminale olandese Kai Proctor), che con il suo sguardo di ghiaccio e il suo parlare tagliente riesce a farsi amare e odiare allo stesso tempo. 


Quando non ficca qualcuno nella tritacarne del suo mattatoio, Kai Proctor appare una persona del tutto normale
 

Sono solo tre esempi, ma spero che bastino per farvi un'idea del lavoro che c'è dietro alla scelta di questo cast, meticoloso a dir poco. E poi, seguendo a parlare di questo, una nota a parte la merita...



Il cast femminile:

Semplicemente, in Banshee ci sono le attrici più fighe mai viste sul piccolo schermo. Punto. Da Ivana Milicevic (Anastasia/Carrie, la donna di Hood) a Trieste Kelly Dunn (la poliziotta Siobhan Kelly), passando per la stupenda Odette Annable (nei panni di Nola Longshadow) e terminando con quel dono di Dio che è Lili Simmons (Rebecca Bowman), Banshee è una gioia per gli occhi di qualunque maschio, una scelta furba della produzione per inchiodare lo spettatore allo schermo laddove questi non trovi altri motivi di interesse. Non ci credete? Ecco...



Ivana Milicevic


Trieste Kelly Dunn

Odette Annable 

Lili Simmons

Siete ancora vivi? Okay, andiamo avanti...
La caratterizzazione dei personaggi:
Banshee è un piccolo vademecum su come si creano e si sviluppano i personaggi. Ognuno di esso, da quelli principali a quelli secondari, ha una sua storia e un passato che viene mostrato e raccontato per conferire loro spessore, cosa che insieme ai dialoghi fantastici contribuisce a renderli parte integrante della storia. Quando poi i personaggi si incontrano al culmine di situazioni di tensione narrativa (spesso questo significa la morte di uno di loro) lo spettatore, che ne conosce il background, si ritrova a fare il tifo per l'uno o per l'altro a seconda delle inclinazioni personali, senza essere sicuro di chi avrà la meglio. Sì perché la serie è pervasa da un gusto per il character killing degno de Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco di Martin, dove non è affatto scontato che un personaggio primario sopravviva allo scontro con una comparsa, e dove la morte è sempre in agguato pronta a farci saltare sulla sedia esclamando "cazzo, no, non lui!"



Il sesso spinto:

Una volta che abbiamo attrici così, le vogliamo vedere vestite? Neanche a parlarne! Un'altra scelta smart di Banshee, una specie di marchio di fabbrica, sono le scene di sesso al limite del soft porno. Soprattutto nella prima stagione, ma un po' in tutte e tre, non passa puntata dove qualcuno non scopi di brutto, e all'immaginazione viene lasciato davvero poco. Il sesso non è comunque messo lì a casaccio, ma piuttosto rappresenta una tra le tante pulsioni ai quali i personaggi cedono, assieme alla brama di soldi e potere, una delle molle che li mette in moto e li spinge a rischiare tutto pur di ottenere ciò che vogliono.



La violenza e le sequenze di combattimento:

Banshee non ci va giù leggero in quanto a violenza. Tra gente ammazzata con bottiglie di ketchup infilate in gola, teste mozzate da autotreni in corsa, carotidi strappate a mani nude e torture di tutti i tipi il sangue scorre a fiumi e senza alcuna censura, catapultando la serie nella categoria delle strictly over 18. La sceneggiatura e il montaggio si compiacciono di questa scelta e giocano con la violenza estrema rendendo ogni morte una piccola opera d'arte visuale, senza mai scivolare nel pacchiano e nel banale.



Una nota a parte per i combattimenti, i migliori mai visti in TV (ma mi dicono che Daredevil in questo senso li abbia superati, vedremo). Praticamente ogni attore di Banshee, donne incluse, è un semi-professionista di arti marziali e uno stuntman capace, e l'allenamento prima di girare ogni puntata deve essere tutt'altro che semplice. Sequenze di combattimento lunghissime, estenuanti, maledettamente reali, dove la camera fa meraviglie con le inquadrature e i punti di vista e i colpi lasciano il segno sulla carne e le ossa come raramente s'è visto altrove. La squadra di coreografi messa insieme dalla produzione per curare questo aspetto è mostruosa, i combattimenti appaiono non realistici, ma reali in tutto e per tutto, e non ce n'è uno uguale all'altro, ognuno di essi resta impresso nella memoria e vi ritroverete a guardarli e riguardarli più volte perché sono così e articolati e frenetici che inevitabilmente vi sarà sfuggito qualcosa. Leve, proiezioni, grappling, armi non convenzionali, Kung-Fu, pugilato, Ju-Justsu, c'è di tutto. Un altro trademark della serie, senza ombra di dubbio.



Carrie e il suo nuovo marito Gordon si bevono un gruppo di ragzzini in una piscina.


Le tematiche:

In Banshee c'è una delle più belle storie d'amore che io abbia mai visto. Hood e Anastasia, Anastasia e Hood. Il loro passato, il presente e un futuro difficile da immaginare, perché le loro vite sono cambiate ed è passato troppo dolore tra loro, troppe lacrime e troppa morte. Hood è l'uomo che non si arrende, che non accetta che le cose siano cambiate, che vuole riprendersi la sua donna a ogni costo. Anastasia è la donna che vuole cambiare vita e vivere in maniera normale, anche rinunciando al vero amore, ostinata nella ricerca di una serenità che non ha mai avuto. In tre stagioni vedremo il loro rapporto evolversi e cambiare, li vedremo provarci e arrendersi, mollarsi e riprendersi, tradirsi, tentare di dimenticarsi, picchiarsi e dormire insieme. L'amore come ponte lanciato al di là di tutto, forza inarrestabile che avvicina persone che dovrebbero, per il loro stesso bene, tenersi lontane l'una dall'altra. Non si può però cancellare quello che è stato, e la quarta stagione probabilmente metterà un punto deciso sulla loro storia, per adesso ancora in bilico.



Anche il rapporto tra Hood e sua figlia Deva (interpretata dalla giovane e brava Ryann Shane) è molto ben strutturato e costituisce una delle trame principali. La difficoltà dello scoprirsi genitore quando si è condotta una vita senza radici e sempre in fuga trasforma Hood in un uomo goffo e impacciato, combattuto tra l'istinto di mollare tutto e fregarsene e quello paterno che invece gli dice che dovrebbe restare e prendersi cura di questa ragazzina. Pian piano vedremo il ghiaccio tra i due sciogliersi e il rancore dissiparsi, diventare complici e scoprire affinità che non avrebbero mai creduto di avere.



Ultimo aspetto, i sentimenti negativi che muovono molti dei personaggi della serie. Come detto, in Banshee i cattivi sono cattivi davvero, dei veri bastardi che non esitano ad arrampicarsi su cumuli di cadaveri per raggiungere i loro scopi. I soldi, il sesso, il potere, la prevaricazione, la gelosia, il possesso, la vendetta, sono la scintilla che dà vita agli incendi personali che bruciano l'anima di questi villains, spesso spingendoli molto al di là di quanto si fossero prefissati. Non si redime nessuno in Banshee, semmai il contrario. Personaggi che all'inizio appaiono tutto sommato positivi subiscono un twist verso la cattiveria che li trascina verso un baratro inevitabile, unendosi ad altri personaggi cattivi che a loro volta si uniscono o combattono altri. In sottofondo, la tematica della malvagità intrinseca dell'animo umano vista spesso non come fine a se stessa, ma come strumento naturale e funzionale al raggiungimento di soddisfazioni terrene. Non si va da nessuna parte facendo i buoni, questo è poco ma sicuro. Non a Banshee, almeno.



Per chiudere, da tre anni a questa parte Banshee è a mio parere la miglior serie TV in circolazione, capace di rivaleggiare con capolavori passati come Breaking Bad e The Shield. Non so quante stagioni ci saranno, ma l'enorme successo riscontrato e l'adorazione al limite del fanatismo dei fan (cercate su Internet, resterete sorpresi) mi fa pensare che abbiamo davanti ancora molti episodi di questa serie, perché un prodotto del genere è una macchina da soldi e alla Cinemax non credo proprio siano degli sprovveduti.



Bene, io ve l'ho detto, se non lo guardate peggio per voi. Un saluto, e a presto!

domenica 3 maggio 2015

"Urban Gothic" e "Ghoul" - due romanzi di Brian Keene

Casini. Ho dei casini, ragazzi, e alcuni sono brutti. Pessime giornate e mal di schiena, due di picche, nottatacce, sbronze cattive, mezze risse, illusioni, voli pindarici, indecisioni, gatti che mi seguono dopo il tramonto, autobus che non passano, bruciori di stomaco, ragni giganti, coinquilini, colleghi, pioggia e vento. Casini. Come li hanno tutti, ma a volte sono un po' troppi. Mi tengono lontano dal blog, distolgono la mia mente dalla concentrazione di cui avrei bisogno, sottraggono linfa vitale alla mia creatività, in altri termini mi scassano il cazzo. Quando uno ha dei casini che fa? Pensa a chi sta peggio di lui per consolarsi. E chi è che sta peggio di tutti? Be', chiaro: i personaggi dei libri horror, quei poveri cristi che ne passano di tutti i colori e si spaventano a morte, sanguinano, crepano a frotte come mosche solo per regalarci qualche ora di intrattenimento e farci volare via dai casini della vita reale che ci attanagliano.

Così, deciso a fuggire dalla mia miserabile realtà, ho letto due libri di Brian Keene, autore horror americano molto aprrezzato che alcuni ritengono (non del tutto a torto, ma non completamente a ragione) una sorta di erede di Stephen King. Keene non mi ha troppo impressionato con il primo libro che ho letto, mentre il secondo mi è piaciuto molto. I libri sono, nell'ordine, Urban Gothic e Ghoul.




Autore ormai affermato e pluripremiato (tra i riconoscimenti più prestigiosi il Bram Stoker Award ricevuto per il romanzo The Rising), Keene è uno scrittore che ha imparato molto bene la lezione di King e l'ha rielaborata con un gusto per la violenza e lo splatter che alla lunga me lo fa preferire a molte cose del buon Stephen. Sarà quell'atmosfera "anni '80" che mi ha fatto tornare in mente i vecchi film che davano su ItaliaUno durante "Notte Horror", oppure il non censurarsi nelle scene di squartamenti o uccisioni, sarà lo stile semplice ma diretto che non lascia spazio a pause di sorta o le trame che, lungi dall'esser capolavori, scorrono però liscie e coerenti, fatto è che Keene secondo me fa centro con poche frecce al suo arco, perché sa scoccarle bene. Keene scrive per gli appassionati del genere e non vuol essere mainstream a tutti i costi, se ne sbatte di creare capolavori e per questo ha successo. Del resto sa scrivere, e non gli mancano le basi per rielaborare a suo modo argomenti che potrebbero apparire, in mani meno capaci, triti e ritriti. Con pochi elementi mette su storie che si lasciano leggere con piacere e soddisfano chi nell'horror cerca il sangue, le budella esposte e qualche momento di tensione, lasciando ad altri il compito di avventurarsi oltre le ancora inesplorate frontiere della letteratura "di paura". Questa opinione è naturalmente basata sui due libri di Keene che ho letto finora, e non è detto che non possa cambiare quando ne leggerò altri. Ma per ora parliamo, per iniziare di Urban Gothic.




Trama:
Di ritorno da un concerto, alcuni teenagers bianchi, ricchi e di buona famiglia, naturalmente strafatti e ubriachi, si ritrovano di notte con l'auto in panne in un quartiere abitato da neri poveri e più o meno delinquenti. Ne nasce una caciara che porterà i ragazzi a rifugiarsi all'interno di una vecchia casa che sembra abbandonata, ma che invece abbandonata non è, essendo invece abitata da un gruppo di mutanti cannibali che inizia a braccarli con l'intento di cucinarli per cena. La casa, scopriremo ben presto, funziona come una vera e propria trappola, con porzioni che scorrono su se stesse e passaggi che scompaiono, tagliando ogni via di fuga ai protagonisti i quali uno a uno vengono massacrati come agnelli al mattatoio. In questa prigione infernale i ragazzi bianchi e quelli neri si ritrovano gomito a gomito e devono fare fronte comune per sopravvivere, le differenze sociali e razziali si annullano e l'unico scopo diventa andare avanti a ogni costo. Ma una cosa sarà chiara ben presto: da lì non si può uscire, e l'unica cosa che resta da fare e cercare di restare vivi il più a lungo possibile, sperando che l'alba porti una salvezza che, man mano che si avanza nel libro, assume sempre più i tratti di una chimera irraggiungibile.

La trama è tutta qui. Il resto sono teste sfasciate, corpi smembrati, torture, mostri e depravazioni varie. Se splatter dev'essere splatter sia, sembra dire Keene, e allora via con la mattanza in puro stile survival horror, dove in ogni scena sappiamo che qualcuno ci rimetterà le penne, nessun limite all'immaginazione malata è consentito. Da applausi il gigante microcefalo che se ne va in giro con un martello da mezzo quintale e, dopo aver ucciso le sue vittime, le "marchia" con una forma di violenza che non augureremmo nemmeno al nostro peggiore nemico. Una sorta di Le colline hanno gli occhi concentrato all'interno di un'abitazione, claustrofobioco e serrato nel ritmo sebbene tutt'altro che innovativo nella trama. La tensione c'è, garantita da ogni porta che cigola rivelando stanze pregne di nuovi orrori, da ogni scalinata che si inabissa in seminterrati bui e infestati di mostri, da ogni tentativo di fuga che finisce inesorabilmente per fallire davanti all'organizzazione dei mutanti che agiscono come un gruppo di cacciatori perfettamente addestrati. Keene si diverte a mostrarci l'inesorabilità del destino degli esseri umani davanti a forze sconosciute e assolutamente incomprensibili, preoccupandosi di concentrarsi più sull'azione che sulla trama in sè, e per questo finendo per lasciare incolmate alcune lacune (in primis dialoghi e caratterizzazione dei personaggi), che però risultano sopportabili se al libro non si chiede più che qualche ora di puro intrattenimento.
Ora invece parliamo di Ghoul.



Trama:
La scuola è finita e Timmy sa che questa estate sarà fantastica. Doug e Barry, i suoi migliori amici, hanno dodici anni come lui, ma non la sua fortuna. Le loro situazioni familiari sono tutt'altro che rosee, ma insieme i tre ragazzini riescono a fuggire dalle brutture del mondo e ricrearsi un universo dove danno vita alle storie dei fumetti che leggono, dei cartoni animati che guardano e alle avventure che essi stessi inventano. Siamo negli anni '80 e la cittadina di provincia dove vivono è un immenso campo da gioco per loro, gli adulti e i bulli della scuola sono i nemici giurati e il loro covo segreto, scavato in profondità all'interno della terra del cimitero, è il segreto che custodiscono più gelosamente.
Ma quell'estate non sarà divertente. Non sarà tranquilla, anzi, li segnerà per sempre. Nello stesso cimitero dove giocano e sognano di essere eroi medievali, cavalieri spaziali o personaggi degli albi Marvel, qualcosa si è risvegliato. Qualcosa costretto a nutrirsi di cadaveri per un'eternità che ora ha deciso di provare il gusto della carne fresca e del sangue caldo, di sfidare il comandamento che lo teneva prigioniero nei meandri del sottosuolo, di riprodursi e allevare la sua progenie. Timmy, Barry e Doug saranno gli unici a combattere il ghoul, il divoratore di corpi morti, e il prezzo che pagheranno li accompagnerà per il resto delle loro esistenze. L'estate tanto aspettata segnerà la fine della loro infanzia, proiettandoli in un incubo dal quale solo a fatica, e non senza cicatrici, riusciranno a tirarsi fuori.

Ottimo romanzo horror con un piacevolissimo taglio alla Stand by me, è qui che vediamo come Keene sia debitore di alcune ambientazioni e atmosfere kingiane e le rielabori secondo la sua personale impostazione. L'estate, l'adolescenza spensierata in cui tutto è un'avventura, i bulli, l'esplorazione, il difficile rapporto con i "grandi", c'è molta carne al fuoco qui oltre all'horror. Apprezzabilissimo, e tutt'altro che secondario nel libro, il focus sulle situazioni familiari dei tre ragazzi. Doug vive con una madre mentalmente disturbata che da quando il marito l'ha mollata per una cameriera lo sottopone a morbose attenzioni, Barry ha un padre alcolizzato e violento, Timmy sembra vivere nella famiglia perfetta ma con l'andare della storia vedrà crollare questa bugia. Keene insiste molto su questo aspetto finendo per tratteggiare molto bene i tre piccoli protagonisti e i loro parenti, riuscendo a fare un lavoro in questo senso di molto superiore al libro trattato in precedenza. Se in Urban Gothic assistevamo alla morte dei personaggi senza troppa partecipazione, in Ghoul ci scopriamo a trattenere il fiato con loro e a sperare che la scampino, ci rattristiamo per le loro sfortune e piangiamo e ridiamo con loro mano a mano che il romanzo procede. Si tratta di una storia di formazione in cui il ghoul è più che altro una figura di sfondo, metaforica se vogliamo, il simbolo orribile di ciò che all'improvviso irrompe nell'idillio spensierato dell'adolescenza cancellando per sempre ciò che da ragazzini siamo portati a pensare possa durare in eterno. C'è molta meno violenza in questo romanzo, ma di certo quella che c'è è ben descritta. Keen si concentra più sulla storia e sui personaggi, sui rapporti e sui sentimenti, lasciando che la trama principale proceda senza fretta, fino al finale tutt'altro che sorprendente ma conunque coerente con un libro del genere. Consigliato.

Finito. È domenica, il tempo fa schifo e tra una settimana a quest'ora sarò quasi in Italia. I casini, quelli per oggi cercherò di dimenticarli, sperando che le cose migliorino. Dopotutto non ci sono mutanti in casa e il più vicino cimitero dista parecchi chilometri. Dovrei essere al sicuro.
Forse.
A patto che quei gatti che mi seguono di sera in realtà non stiano tramando qualcosa alle mie spalle. 
Ce n'è giusto uno sotto la finestra che mi guarda. 
E chi è quella vecchia affacciata alla finestra di fronte che mi guarda con un sorriso malevolo?
Ci penserò dopo, ora devo pagare l'affitto. I passi sulle scale e il rumore di una motosega mi dicono che il padrone di casa è arrivato, e che questo mese non accetterà pagamenti rateizzati.


domenica 12 aprile 2015

"Z Nation" vs "The Walking Dead": non c'è partita

The Walking Dead:
"Sigh, sob, il mondo è finito, c'è stata un'apocalisse e le città sono piene di zombie che si muovono lentissimi e a me in fondo dispiace ammazzarli, io sono un poliziotto dal cuore tenero e c'ho pure un bambino cui devo badare. Formiamo un gruppo per non sentirci soli, iniziamo una specie di telenovela sull'intreccio dei rapporti tra i personaggi e ogni tanto ammazziamo qualche zombie. Vagando attraverso gli Stati Uniti alla fine giungeremo in un luogo misterioso dove scopriremo un GOMBLOTTO che getterà nuova luce su questi avvenimenti nefasti e ci porterà più lontano, dandoci la possibilità di riflettere su noi stessi e su ciò che proviamo neanche fossimo in un film di Ozpetek. Scusateci se vi annoierete. Il nostro scopo è disquisire sulla natura umana quando le leggi della società vengono meno e l'uomo si ritrova davanti all'atavico bivio che da una parte conduce all'abbandonarsi agli istinti più bestiali e dall'altra alla dolorosa conservazione di quei principi morali che lo differenziano dalle specie inferiori.
Come dite? Ho uno zombie attaccato alla gamba che mi sta masticando il polpaccio? Oh, deve essere così affamato, poverino, sigh, sob..."


Z Nation:
"Porca puttana, il mondo è finito, c'è stata un'apocalisse e le città sono piene di zombie che si muovono come centometristi impasticcati di speed e io in fondo godo ad ammazzarli, io sono un ex sergente della Guardia Nazionale e ho un martello con cui sfondo i crani di questi cadaveri ambulanti come fossero gusci d'uovo. Formiamo un gruppo con lo scopo di sopravvivere, mettiamoci dentro tre tettone di etnie diverse, un dottore hippie appassionato di droghe, un ragazzino con una mira infallibile e un belloccio biondino e facciamoci un coast-to-coast negli USA per accompagnare in California un ex-galeotto nel cui DNA risiede l'unica speranza della razza umana. Viaggiando attraverso gli Stati Uniti con l'unico aiuto di un nerd intrappolato in una base polare che comunica con noi per mezzo di sistemi satellitari massacreremo caterve di zombie usando mazze chiodate, fionde, motoseghe, frullatori, bombe a mano e chi più ne ha più ne metta, e alla fine incontreremo un supercattivo pazzo come una scimmia schizofrenica. 
Scusateci per la violenza, ma questa è l'apocalisse e dobbiamo sopravvivere.
Come dite? Uno zombie si avvicina? Datemi un attimo... BANG! Ecco fatto. Oh, cazzo, non era uno zombie..."


Okay, non era difficile fare meglio di The Walking Dead, quindi non ci spelleremo le mani ad applaudire Z Nation. Più che altro interessa forse capire perché questa serie TV uscita da poco e arrivata alla fine della prima stagione ha funzionato. Ha funzionato perché Z Nation è quello che una serie sugli zombie dovrebbe essere, e perché segue con fedeltà la lezione romeriana marchiata a fuoco sin dal lontano 1978 con L'alba dei morti viventi.

Creato da Karl Schaefer e Craig Engler e trasmesso dalla Syfy, Z Nation si basa su una premessa semplice ma interessante, un'idea che da sola è in grado di giustificare la trama: Murphy (interpretato da Keith Allan), un galeotto su cui una dottoressa ha testato un vaccino sperimentale anti-zombie, è l'unico essere umano sopravvissuto ai morsi dei morti viventi senza restarne infettato. Nel suo sangue risiede il vaccino, e quindi è l'uomo più importante del mondo, tanto che un gruppo di uomini e donne rischierà tutto per farlo arrivare in un laboratorio in California. 

La trama è tutta qui. Il resto sono puntate strutturate come livelli di un videogame, in cui i protagonisti devono falcidiare orde di zombie usando le armi più disparate. L'intreccio è se vogliamo stupidotto, ma l'adrenalina è sempre alta, l'azione è veloce e ci sono ettolitri di sangue, quintali di budella esposte e tonnellate di cervelli che schizzano ovunque. Allan è l'unico attore degno di nota del cast insieme forse a Russell Hodgkinson che interpreta Doc, per il resto siamo su un livello di recitazione mediocre ma sapete una cosa? Chi se ne frega. Tra battutacce, zombie ridicolizzati in perfetto stile romeriano, attrici poco vestite e violenza a go-go Zombie Nation rappresenta un intrattenimento perfetto, la classica serie da guardare per riposare il cervello dopo una dura giornata di lavoro. I creatori lasciano ad altri il compito di addentrarsi in tematiche profonde e riflessioni esistenziali, preferendo concentrarsi sull'azione e sull'umorismo. E non ci sono limiti alla violenza, non c'è quel "politically correct" che dava tanto fastidio in The Walking Dead. Se apocalisse deve essere, che apocalisse sia, e allora via con neonati zombie massacrati a martellate, biker assassini, comunità di cannibali, zombie mangiataori di viagra che se ne vanno in giro a uccello duro e chi più ne ha più ne metta. Okay, non è Sherlock e non è nemmeno True Detective, ma credo che ormai ci foste arrivati, no?


"Nice shot, kid!"

Insomma, Z Nation si fa preferire a The Walking Dead perché non pretende. Z Nation è grossolano, dozzinale, sboccato, truculento, fracassone, demenziale, insomma tutto quel che una serie TV sugli zombie dovrebbe essere, perché mica vogliamo davvero essere seri quando parliamo di morti viventi?
Serie consigliata a patto che non vi aspettiate un capolavoro, e il vostro obbiettivo sia solo farvi quattro risate insieme a un pugno di personaggi che, inevitabilmente, finiranno per starvi simpatici.

See you.
And aim for the head!

lunedì 6 aprile 2015

"Il cuore nero di Paris Trout" di Pete Dexter

Se seguite questo blog ricorderete forse che avevo già parlato di Pete Dexter in questo post dedicato ai romanzi di gangsters, dove Dexter veniva citato per il suo bel "Così si muore a God's Pocket". Era, quello, un romanzo dal taglio umoristico in cui si rideva amaro, una dissertazione sull'animo umano e sulla società americana che assumeva toni a volte leggeri e altre molto profondi, in cui il comico e il tragico andavano perfettamente a braccetto ricreando uno spaccato della provincia a stelle e strisce in cui si muovevano personaggi perfettamente caratterizzati. Avevo espresso la volontà di leggere di più di Dexter, e infatti mi son comprato un altro suo romanzo, "Il cuore nero di Paris Trout".



Cotton Point, Georgia. Neri e bianchi convivono gomito a gomito in uno spazio che sembra troppo piccolo per le differenze e le diffidenze che esistono tra loro, povertà e benessere sono alla portata di una svolta d'angolo e i diritti non sono uguali per tutti. Paris Trout è un quasi sessantenne con una madre in ospizio e un negozio che usa anche come ufficio per prestare denaro. Lo gestisce insieme alla moglie Hanna, che per sposarlo ha rinunciato ai sogni di una carriera come insegnante, salvo poi pentirsene quando ha scoperto chi era davvero suo marito. 
Sì, perché Paris Trout è cattivo. Più che cattivo. Paris Trout è ossessionato, disturbato, a tratti inumano. Paris Trout è un uomo che vive secondo dei principi che sono solo suoi, e si attiene ad essi anche se il resto del mondo non li riconosce. Paris Trout presta denaro indifferentemente a bianchi e neri, non fa discriminazioni in questo. Pretende solo una cosa: di essere pagato. 

Ma un giorno accade qualcosa. Uno dei ragazzi di colore cui ha prestato soldi non può pagare, così Trout si reca a casa sua per riscuotere e commette qualcosa per cui l'intera città inizierà a temerlo, riconoscendolo per il mostro che avevano sempre sospettato che fosse. Da qui in poi la sua anima precipita all'inferno e la sua mente cessa di essere lucida, e Paris Trout inizia la sua guerra personale contro i tribunali, contro la moglie, contro l'intera nazione degli Stati Uniti. Nessuno riuscirà a farlo ragionare, e chi si metterà sulla sua strada avrà l'occasione, guardando nei suoi occhi, di assaporare il più oscuro e raccapricciante segreto che attanaglia alcuni esseri umani. Finirà male per Cotton Point, malissimo. Paris Trout lascerà nella cittadina un segno indelebile, rovinando, come un morbo che contagia tutti gli organismi che incontra, le vite di coloro che avranno la sfortuna di gravitare nella sua orbita. 

Fenomenale romanzo che sbugiarda il Sogno Americano e indaga le radici del razzismo insito nell'animo di una popolazione che, a livello inconscio, non ha forse mai fatto i conti con se stessa e con le sue origini. "Il cuore Nero di Paris Trout" raggiunge cime di tensione drammatica e di profondità contenutistica raramente riscontrate altrove, arrischiandosi a indagare i territori insondabili della pazzia e dell'ossessione tramite la vita di Paris Trout, un uomo che vive come se fosse il solo essere umano in un mondo popolato di formiche. Paranoico, avaro, pieno di pistole e fucili con cui difende il suo patrimonio, diffidente nei confronti del fisco e del governo, razzista ma disposto a fare affari con tutti, Paris Trout è l'icona di un tipo d'americano duro a morire, l'uomo che si è fatto da solo e che non accetta che nessuno, né la legge né il prossimo, gli mettano i bastoni tra le ruote. 

Paris Trout non ama sua moglie e non ha amici, ha dei principi che sono chiari solo a lui e non capisce come gira il mondo. Ha anche una determinazione incrollabile, e non esita a infrangere la legge per salvarsi dalla galera quando le cose per lui si mettono male. Ma quello che succede all'inizio della storia, anche se non lo ammetterà mai, lo segnerà in maniera indelebile. Impazzisce pian piano, Trout, come il Mazzarò verghiano di "La roba". "La roba", "la roba", sempre "la roba". Proprio come Mazzarò, Paris Trout accumula beni e ricchezze senza uno scopo preciso, per il solo gusto di possedere, perché altro non sa fare. Ma "la roba", come ci ha già mostrato Verga, non "se ne viene con te" quando muori. "La roba" è solo roba. Anche se per essa uomini come Paris Trout sono disposti a uccidere. 

Paris Trout non lascia nessuno di quelli che incontra indenne. Distrugge vite e ne contamina altre, ossessiona come un incubo la mente di sua moglie Hanna, degli avvocati Seagraves e Bonner, dello sceriffo della città. Paris Trout è lo specchio che mostra ciò che non vuoi vedere, quegli aspetti di te che ti sei sempre sforzato di nascondere e che detesti, che ti sei illuso non esistessero. Alla fine andrà via, non senza rumore e non prima che il sangue sia stato sparso, ma lascerà una cicatrice profonda su Cotton Point. E forse, per sempre, ci si chiederà se in fondo non siamo tutti un po' come lui, come dichiarato sul Washington Post in proposito di questo romanzo il cui successo sta "nel ricordare a tutti noi - con assoluta lucidità e pungente franchezza - fino a che punto siamo capaci di negare il razzismo che portiamo nell'anima per convincerci che siamo innocenti".

Stile duro e senza fronzoli, ritmo serrato, approfondimenti psicologici e sociali sempre a fuoco, questo romanzo proietta Dexter nell'olimpo dei grandi scrittori americani contemporanei. Il libro è stato premiato con il National Book Award ed è ritenuto al momento il capolavoro di Dexter, ed è una lettura assolutamente consigliata per chi vuole indagare sulle zone d'ombra non solo della cultura americana, ma dell'animo umano in generale, su quelle aberrazioni dell'esistenza e della coscienza che generano mostri che a prima vista sembrano cittadini rispettabili, e che per questo fanno più paura di licantropi, zombie e vampiri.  

lunedì 23 marzo 2015

Peaky Blinders - La storia vera, la leggenda, la serie TV

Così è arrivata la primavera, io sono sopravvissuto a San Patrizio e la vitaccia, più o meno, è sempre la solita. Con l'arrivo della primavera le giornate si sono allungate e si son fatte più calde, il sole splende e le ragazze vanno in giro già seminude, il che è inconfutabilmente la prova più lampante che abbiamo dell'esistenza di un Dio benevolo. 

Il posto dove lavoro si chiama Ballycoolin Business Park, ed è circondato da un parco verde. Ci sono centinaia e centinaia di bellissimi conigli, ciccioni e teneri, che passano la giornata a mangiucchiare l'erba, rincorrersi e scavare tane. Siccome sono conigli si accoppiano un sacco di volte all'anno, così di tanto in tanto nascono nuove cucciolate di piccoli che sono ancora più supermorbidi dei genitori, minuscoli ammassi di pelo che ti guardano con quegli occhioni innocenti e ruminano con dei musetti che ti fanno venir voglia di prenderli e strapazzarli di baci.
Mentre lavoro guardo i conigli nel prato fuori dalla finestra e mi sembra che il mondo sia un posto bello, che ogni cosa abbia una sua logica e tutto sia stato creato con uno scopo ben preciso, perfino io.
Ma questa scena bucolica dei conigli che mangiano, giocano e scopano felici è spesso interrotta da un avvenimento di una violenza inaudita: all'improvviso, dal nulla, arrivano di gran carriera dei cani randagi e iniziano a dare la caccia ai piccoli e indifesi animaletti. Questi cani rognosi sono affamati e inferociti da una vita passata in strada, cacciano in branco come lupi, con una strategia precisa, sono organizzati. Un attimo prima nel parco c'è una pace da paradiso terrestre, un istante dopo si scatena l'inferno. I cani braccano i conigli, li intrappolano nei cespugli, li sbranano e li fanno a pezzi. I piccoli fuggono terrorizzati, le madri sono combattute tra l'istinto di conservazione e quello genitoriale, non sanno se mettersi al riparo o proteggere i cuccioli. I cani non mollano fino a quando non hanno preso qualche preda; chiudono ogni via d'uscita, si chiamano e coprono ogni spazio di terreno come uno squadrone della morte in un raid notturno nelle Favelas. I conigli sono stati creati da un Dio benevolo ma un po' smemorato che si è dimenticato di fornire loro la benché minima arma di difesa. E allora scappano più veloce che possono e attraversano la strada che taglia in due il parco,  finendo maciullati sotto le auto e i bus che passano di lì. Oppure si paralizzano per la paura e vengono mangiati, a qualcuno scoppia il cuore per il terrore e lo sforzo della corsa. Noi guardiamo queste scene dalla finestra, e c'è sempre qualcuno che commenta. C'è chi si copre gli occhi e chi guarda con un morboso interesse, chi incita i conigli alla fuga e chi invece parteggia per i cani sostenendo la teoria darwiniana della sopravvivenza del più adatto.
"Fuck, di nuovo i cani!"
"No, poveri coniglietti!"
"Andiamo ad aiutarli, prendiamo pietre e bastoni!"
"Ci licenziano se usciamo."
"Andrei io, ma ho la pausa pranzo."
"Perché nessuno fa nulla? Dov'è la security?"
"Ragazzi, ma non scassate il cazzo, è la natura che fa il suo corso."

Quest'ultima frase, pronunciata spesso dai più nichilisti del gruppo, è vera. I cani non sono cattivi, fanno solo quello che è nella loro natura. Devono nutrirsi, sanno che lì ci sono i conigli e vanno ad ammazzarli. Non c'è malvagità nel mondo animale, le più efferate scene come questa sono totalmente giustificate perché mosse solo dall'istinto naturale. Non c'è odio, non c'è vendetta, non c'è gratuita violenza. I cani di Ballycoolin non sono esseri umani. Uccidono perché devono sopravvivere, e quindi non si può incolparli.

L'essere umano, invece, uccide per un sacco di motivi. Uno di questi è la sete di potere, l'ambizione, la volontà di prevaricare i suoi simili. Questa storia è ben raccontata in Peaky Blinders, una serie TV britannica uscita finora in due stagioni da sei episodi l'una che sono stati trasmessi da BBC Two.




 La serie è ambientata a Birmingham alla fine della prima guerra mondiale e segue le vicende della gang dei Peaky Blinders, realmente esistita. Il nome della banda deriva, stando alla leggenda, dalla peculiare arma che adoperavano nelle risse da strada: pare infatti che usassero cucire delle lame di rasoio nelle visiere ("peaks" in inglese") dei loro cappelli, e che utilizzassero appunto i copricapi come un'arma per sfregiare, accecare e uccidere. Non si sa se sia vero oppure no, di certo invece c'è che la gang aveva uno stile d'abbigliamento assolutamente peculiare: i membri erano immediatamente riconoscibili per il fatto di indossare berretti, cravatte, soprabiti lunghi e bantaloni stretti, un vestiario sicuramente elegante che non passava inosservato. Anche le loro donne amavano vestire bene, adornandosi con perle e merletti. Il termine "Peaky Blinders", a quanto pare, divenne così famoso da passare dall'indeficazione una specifica gang a tutte quelle che in quel periodo infestavano Birmingham. 

 Nella foto: i veri Peaky Blinders

La serie inizia con i tre fratelly Shelby che ritornano in Inghilterra dopo aver combattuto la guerra. Tommy (Cillian Murphy), Arthur (Paul Anderson) e il giovane John (Joe Cole), vogliono rimettere insieme la gang e impadronirsi del racket delle corse di cavalli a Birmingham. In una città cupa, crepuscolare, pericolosissima, scossa da tumulti anarchici e comunisti, aiutati dalla risoluta zia Polly (una bravissima e intensissima Helen McCrory), i tre innescheranno una spirale di violenza che li porterà a scontrarsi con le altre gang che lottano per lo stesso obbiettivo, finendo inevitabilmente con il fronteggiare organizzazioni più grosse e potenti di loro, prima tra tutte l'I.R,A. Nella seconda stagione faranno il passo più lungo della gamba, spinti da una sete di potere che li inebria come un liquore cattivo, e la guerra per la supremazia raggiungerà vette di brutalità senza pari, degenerando in un fiume di sangue da cui nessuno potrà salvarsi.

I personaggi di questa serie sono molto ben caratterizzati. Tommy è il deus ex machina, il protagonista, la mente che muove tutto. Intelligente, freddo, divorato da un'ambizione senza fine, ricorda per molti aspetti l'Enoch Thompson di Boardwalk Empire. Però Tommy non è un senatore, è nato nei sobborghi lerci di Birmingham e invece di avere scagnozzi che gli fanno il lavoro sporco se la sbriga in prima persona, rischiando la pelle in ogni occasione. I suoi sentimenti sono morti, Tommy vive per questo sogno di dominare Birmingham e diventare il re della strada, tutti lo temono ma pochi lo amano, e quelli che sono amati da lui sono anche di meno. Le cose cambieranno quando incontrerà una donna che manderà in pezzi le sue sicurezze. Sarà in quel momento che il duello tra lui e l'ispettore Campbell (Sam Neill) si sposterà da un piano meramente "professionale" (criminale contro poliziotto) a quello personale di rivali in amore. 

Sam Neill, dicevo. Grandissimo attore, grandissimo il personaggio che interpreta. Campbell è un uomo patetico, viscido, che nasconde tutte le sue insicurezze e le sue frustrazioni dietro la facciata di uomo di legge esemplare. E' un cattivo di quelli veri, con molte sfumature, tratteggiato davvero alla grande e capace di una comicità involontaria che strapperà molte risate. La guerra personale che ingaggia con Tommy può finire solo con la morte di uno dei due. La brama di prevaricare, la malvagità, l'odio che li avvelena è uno degli aspetti più spaventosi della natura umana. Altro che i cani di Ballycoolin.

Arthur, dal canto suo, è pazzo. Gli orrori visti in guerra lo hanno trasformato in un animale capace di comunicare ciò che sente solo attraverso la violenza, uccidere è ormai l'unica cosa che sa fare e per tenere a bada i suoi demoni spegne decine di vite. Ma non è cattivo. E' solo disturbato. Arthur Shelby è la prova di quanto la guerra possa far male a chi vi sopravvive, trasformando un essere umano in un mostro che si porta dietro i suoi fantasmi con la consapevolezza di doverci convivere per sempre. Arthur è la perfetta controparte di Tommy. Laddove l'uno è bestiale, istintivo, esagerato in ogni cosa, l'altro è calcolatore, gelido, misurato. Il loro rapporto è ben sviluppato nella serie, finendo con l'essere un altro dei molti punti di forza dello show. 

Un plauso alle musiche e alla regia, anche: la colonna sonora rock dona alle risse e agli ammazzamenti un gusto davvero particolare, mentre la camera compie ogni tanto evoluzioni che ci presentano la scena in una versione moderna da "videoclip" che onestamente ho molto gradito. La regia e le musiche lasciano dunque la loro impronta conferendo un valore aggiunto alla sceneggiatura, il che è un bene perché c'è sempre da esser contenti quando chi sta dietro a una produzione non si limita a fare il minimo sindacale. 

Consigliato. Molto. Peaky Blinders è un'epopea britannica di inizio '900 che soddisferà gli amanti di Gangs of New York e Boardwalk Empire, una serie tecnicamente valida e ben pensata, con ottimi attori. 

Credo sia tutto per oggi. 
E ora scusatemi, ma devo vestirmi, prendere la mazza da baseball e uscire. Ho promesso a Papà Coniglio che l'avrei aiutato a difendere la sua famiglia dai cani. 
Ci sarà del sangue, oggi, sull'erba di Ballycoolin.