lunedì 23 febbraio 2015

"L'estate dei morti viventi" di John Ajvide Lindqvist

Stamattina quando mi sono svegliato pioveva. Poi ha iniziato a nevicare, quindi il vento ha trasformato la nevicata in quella che in inglese si chiama blizzard, infine la pioggia è tornata a unirsi a quest'orgia di fenomeni atmosferici infausti e la neve si è mutata in una poltiglia acquosa che turbinava nel cielo come panna in un frullatore, trasformandosi in viscide pozzangere a contatto col suolo. Adesso c'è il sole. Il tempo in Irlanda cambia con più frequenza dell'umore di una donna incinta, l'ombrello è inutile e ci sono giorni in cui l'unica soluzione sarebbe restarsene a letto con un bel libro e una tazza di caffè caldo. Questo tempo mi deprime, e come ho già detto quando sono depresso a me viene voglia di parlare di Dickens. Ma devo trattenermi. Non posso parlare di Dickens, ho giurato che non l'avrei mai più fatto sulla tomba di Johnny, laggiù sull'orlo delle bianche scogliere di Dover nella cui dura terra seppellii le sue giovani spoglie mortali dopo quel brutto affare con la banda dei marsigliesi. Terrò duro e penserò all'estate, al caldo, ad altri paesi e altri scrittori, altre epoche, altri cazzi insomma. 

L'estate, dunque. L'estate mi fa pensare a tante belle cose, tanti ricordi di quando ero disoccupato a Salerno e non facevo una mazza dal mattino alla sera, aggirandomi tra un bar e l'altro alla ricerca di qualsiasi cosa potesse rappresentare un diversivo alla monotonia di un'esistenza che definire becera sarebbe un'eufemismo lontano dalla realtà più o meno come io lo sono da casa. Vivevo come un morto vivente. D'estate. L'estate dei morti viventi. Aspetta, c'è un libro con questo titolo, e io l'ho letto. Ed era bello! Ecco l'antidoto a Dickens, parliamo di questo!

Parliamo di horror. Mi capita spesso di sentire o leggere di appassionati di horror che, a ragione, si lamentano dell'odierna scarsità di tematiche innovative in questo genere, puntando l'accento su come, in letteratura così come nel cinema, si sia verificato un livellamento verso il basso che sembra soffocare l'emergere di nuovi argomenti e nuovi punti di vista da cui guardare alla materia in esame. "The Walking Dead", ragazzi, e non aggiungo altro. Cioè, dico, "The Walking Dead". Il Festival di San Remo ha sicuramente più colpi di scena, gli zombi sono più cattivi (Masini, Grignani e Nek col cacchio che li butti giù con le sei pallottole nel tamburo di una Colt) e il buonismo è più o meno uguale, anche se San Remo fa obbiettivamente più paura. "The Walking Dead". No grazie. Parliamo d'altro. 

Che poi se invece di guardare la serie leggete il fumetto, lo troverete bello bello bello

Adesso parliamo di John Ajvide Lindqvist. Svedese, classe '68, il Nostro diviene famoso tra il grande pubblico grazie al romanzo "Lasciami Entrare", da cui viene tratto anche un film che riscuote un buon successo. La tematica non è certo innovativa, ma lo è il modo in cui l'autore la affronta: più che ai mostri, al sangue e alla violenza Lindqvist si mostra interessato alle reazioni dei protagonisti di fronte al sovrannaturale che sconvolge la normalità, riempiendo i suoi scritti di emozioni e sentimenti assolutamente umani e guarnendo il tutto di significati tutt'altro che banali, che conferiscono alla sua letteratura horror uno spessore in grado di travalicare il semplice e ripetitivo canovaccio del genere. Questa cosa gli riesce perfettamente nel romanzo che segue, "L'Estate dei Morti Viventi". Vediamo perché e come. 


In un'estate assurdamente calda per Stoccolma, una sorta di tempesta magnetica manda in tilt le apparecchiature elettriche, causando di lì a poco un'epidemia di emicrania collettiva. Ma è solo l'inizio. Presto infatti si sparge la notizia, impossibile da nascondere per i media, che i cadaveri si stanno risvegliando. La città precipita nel caos, il governo tenta di arginare il fenomeno come può, ma ciò non impedisce ad alcuni defunti di tornare a casa, alla vita di cui serbano ancora brandelli di ricordi nel loro cervello distrutto, e tentare, in una goffa, miserabile e tristissima parodia di ciò che una volta era stato, di ricominciare lì da dove la morte aveva interrotto la loro esistenza. 

"L'Estate dei Morti Viventi" segue le vicende di alcune persone che si vedono ricomparire davanti i familiari deceduti e creduti persi per sempre, descrive tutto l'orrore, la speranza e le difficoltà di approccio di un essere umano che deve fare i conti con qualcosa per cui tutti preghiamo, ma che non osiamo immaginare davvero: il ritorno di un caro estinto. Eccolo lì, il vecchio marito con cui la signora ha trascorso quasi tutta la vita, ripresentarsi sulla soglia con lo sguardo privo di coscienza, entrare in casa e accomodarsi sulla sua sedia preferita, ecco figlie, fratelli e mogli spentisi prima del tempo che tornano alle case, alle famiglie, alle vecchie stanze, mossi da un istinto che guida i loro passi incerti verso ciò che in qualche modo sanno essergli appartenuto. Ma non è facile, non è plausibile e in fin dei conti non è neppure giusto vivere in questo modo, quello che sta accadendo è un'aberrazione dell'ordine naturale delle cose ed è qui che esplode il lacerante contrasto interiore dei vivi, la lotta tra il loro invincibile amore per i morti ritornati a casa e la consapevolezza che non sarà mai più come prima, che queste cose risvegliatesi dalle bare e dai letti d'obitorio non sono che simulacri di ciò che una volta erano i loro cari. In questo libro il "bang bang!" viene in secondo piano rispetto all'elemento psicologico ed emozionale, ciò che a Lindqvist interessa è mostrarci le reazioni dei vivi più che le azioni dei morti, è un libro intriso di una malinconia schiacciante e di una profondità di contenuti che difficilmente troverete in altre opere di genere horror. Il finale, poi, è forse la migliore teorizzazione dell'Aldilà che io abbia mai letto, un capolavoro nel capolavoro, uno sguardo pieno di speranza a quello che ci attende quando lasceremo questo mondo, un delicato, straziante, poetico addio alla vita che permette ai personaggi e al lettore di riconciliarsi con l'idea insopportabile della perdita, del distacco. Ve lo dico: se non piangerete leggendo il finale di questo libro allora avete qualcosa che non va. E se non lo leggerete, allora non lamentatevi che l'horror è tutto uguale e che non ci sono scrittori che affrontano la materia da angolazioni differenti. Perché invece ci sono. 

Un saluto. Qui c'è ancora il sole. Per ora.

giovedì 12 febbraio 2015

Love/Hate - Gomorra in versione Irish

Ah, Dublino! Una città magica, dalle molte facce (tutte ubriache) e dalle tante contraddizioni, città di fiume e di mare, città dell'Europa moderna ma orgogliosamente ancorata alle proprie tradizioni, città di multinazionali e senzatetto, universitari e ragazze madri, la città più cattolica d'Europa dove il sabato sera sono tutti in cerca di una sveltina in una toilet (God bless you Irish girls). 
E la città della droga. Sì, ragazzi, qui ne gira a pacchi e negli anni '80 era anche peggio, tanto che una leggenda vuole che lo Spire, l'altissima struttura costruita in O'Connell Street per celebrare il nuovo millennio, simboleggi in realtà un enorme ago di siringa, a ricordo perenne del flagello dell'eroina che causò così tante vittime una trentina d'anni orsono. Non so se è vero, secondo me no. Le vittime invece sono accertate. Negli '80 poche città si drogarono come Dublino, al punto che bisognò costruire nuovi quartieri dove spostare la gente perbene che non ne poteva più di vivere in un centro cittadino brulicante di tossici.



Dieci mesi fa stavo per partire per Dublino. Iniziai a guardare Love/Hate con l'intento di imparare l'accento irlandese. La serie non mi fece impazzire all'inizio, ma ne ricavai comunque due conclusioni interessanti:

  1. l'accento irlandese è più o meno comprensibile come il colloquiare di un cinghiale a cui sia stata tagliata la lingua, rimpiazzata con le setole di una scopa, ficcata una patata in bocca e impiantato un chip neurale che gli decuplica la velocità di parola, il tutto mentre l'animale si sforza di imitare il linguaggio umano.
  2. Dublino è pericolosa. Gli avvenimenti della serie TV mi lasciarono abbastanza sconcertato, al punto di farmi iniziare a temere di aver scelto la destinazione sbagliata.



Quando poi arrivai qui incontrai Noel, il mio primo padrone di casa. Noel è nella sezione scientifica della Garda (la polizia di Dublino), e il contratto d'affitto me lo portò a firmare nel suo ufficio al comando centrale. C'erano tute bianche tipo CSI, polverine per le analisi e altra strumentazione, c'erano poster e computer, valigette dal contenuto misterioso. Chiesi a Noel se conosceva Love/Hate e se Dublino era davvero così. Lui mi disse che era anche peggio, perché il porto della città è uno dei maggiori snodi europei per il commercio della droga che arriva dal Sudamerica, e le gang si contendono la piazza a suon di agguati e sparatorie in cui a volte ci van di mezzo innocenti.

“Hey, Noel, non è che mi riporteresti all'aereoporto? Ho dimenticato lo spazzolino da denti in Italia”.

“Tieniti lontano dai guai e non far tardi la notte.”

“Okay Noel. Grazie.”

Ora Noel non è più il mio padrone di casa, perché mi sono trasferito. Voglio solo dire che era (ed è) una delle persone più buone che abbia mai conosciuto, un padre di famiglia e un gran lavoratore, uomo di una corretezza estrema. Le ultime parole che mi ha rivolto quando ci siamo salutati sono state “Alfredo, qualsiasi problema tu abbia mentre sei qui a Dublino, chiamami. Ti aiuterò.”

Grazie, Noel. 

  
Creato da Stuart Carolan e trasmesso dal canale irlandese RTÉ, Love/Hate è ambientato nella Dublino dei giorni nostri e segue le vicende di una gang che cerca di farsi strada fino ai vertici del giro dello spaccio di droga. Come detto l'inizio non è fantasmagorico, seguendo più che altro le vicende di Darren (Robert Sheehan, già noto per la sua interpretazione in Misfits), un ragazzo che torna a Dublino dalla Spagna, dove s'era rifugiato perché aveva qualche guaio con la legge. Darren è tornato per la ragazza con cui stava e di cui è ancora innamorato, ma lei sta con un altro. Darren sclera e finisce irrimediabilmente coinvolto nei vecchi giri, finendo per affiliarsi alla gang del cattivo e gelido “John Boy” Power (Aidan Gillen), che ha per braccio destro l'infido, furbastro e arrivista Nigel “Nidge” Delaney (Tom Vaughan-Lawlor). La gang cresce e si fa nemici e complici, le storie dei membri si intrecciano, gli omicidi, le esecuzioni e lo smercio di droga proseguono di pari passo mentre gli equilibri di potere all'interno della banda sono sempre più precari e la Garda suda sette camicie nel tentativo di arrestare le loro attività illegali. È a partire dalla seconda stagione che le cose iniziano a farsi più interessanti, quando la love-story di Darren scivola in secondo piano, la lotta interna alla gang si fa più spietata e sulla scena compare uno dei personaggi migliori della serie, Francis “Fran” Cooney (Peter Coonan). Fran è il caos puro, un folle dai modi animaleschi impossibile da controllare, la scheggia impazzita del gruppo che giocherà un ruolo fondamentale nel prosieguo della serie, quando l'IRA, le bande rivali e altri nemici decideranno di schiacciare la banda. Nelle ultime due stagioni compare un altro grandissimo personaggio: il costruttore di bombe Patrick Ward (John Connors), padre affettuoso e religiosissimo che si tramuta in killer spietato per portare a compimento una vendetta che non può assolutamente tralasciare. Questo personaggio sarà poi la “chiave” di molte vicende, ma è senza dubbio positivo osservare come sia uno dei meglio tratteggiati, uno dei più “irlandesi” della serie, con quel suo senso della famiglia che va al di là di tutto e dei principi saldissimi che lo guidano anche quando decide, lucidamente, di diventare un assassino per infliggere a chi l'ha colpito il meritato castigo.

Nella foto: Fran impegnato nel suo sport preferito: ammazzare esseri umani a sprangate
 
Love/Hate è pieno di risse, gente accoltellata, sparatorie, inseguimenti, tossici, droga, night-club lussuosi, mignotte. Ma è anche una storia che parla d'amore, rappresentato principalmente dai personaggi femminili. Da Rosie (Ruth Negga), la ragazza di Darren, a Trish (Aoibhinn McGinnity), moglie di Nidge, passando per la spiantata e fragile Siobhan (Charlotte Murphy) e la tossica Debbie (Susan Loughnane), queste donne sono coinvolte loro malgrado nelle vicende violente e drammatiche del mondo di cui fanno parte, cercando di mantenere salde le loro famiglie e i loro affetti mentre attorno a loro tutto crolla trascinandole inevitabilmente sul fondo. Le donne hanno un ruolo niente affatto marginale nella serie, in esse ritroviamo la quotidianità della vita dei gangster che tornano da loro dopo rapine, omicidi e pestaggi, in esse c'è la lotta di madri e mogli e fidanzate per resistere e tirarsi fuori da una vita che hanno di certo scelto, ma che rischia di distruggere non solo loro, bensì anche tutto ciò che amano. 

  Nidge con quel bel pezzo di figliola di Trish 

L'amore, come l'odio e i soldi, è il carburante che muove i personaggi di Love/Hate. Per amore si uccide e si lascia vivere, si condanna e si perdona, si fanno cazzate e si mandano all'aria piani, si commettono passi falsi. “Amore” significa spesso “possesso” nel mondo dei criminali, e infatti le storie d'amore propriamente identificabili come tali sono poche; le altre sono rapporti basati sul bisogno, sull'opportunità e sulla paura, come quello tra Debbie e John Boy, o come il matrimonio tra Nidge e Trish, che pur amandosi e avendo dei figli non hanno quasi nulla in comune. Per assurdo, uno dei personaggi davvero innamorato di sua moglie è il pazzo bastardo Fran. Quando scoprirà la verità sulla sua adorata Linda (Denise McCormack) be', saranno cazzi, nessuno potrà più fermarlo. E che dire dell'amore dei padri per i figli, anche questo ben presente nel drama, o dell'amicizia, che di tanto in tanto brilla come un diamante nel fango, soffocata da altri istinti più pressanti ma comunque presente in alcune sottotrame. 

 Debbie e John Boy

Love/Hate è una serie dura e attuale, che affonda i piedi nella realtà e che ci offre uno spaccato di Dublino che forse non tutti immaginano, ma che bisogna conoscere soprattutto se si vive qui. La Città di Smeraldo non ne esce bene, bisogna dirlo: cupa, pericolosa, degradata, ci viene mostrata in tutto il suo brillare di luci e night-clubs e in tutto il suo squallore di quartieri popolari dove la criminalità recluta i suoi soldati. Qui c'è poco spazio per i cliché sull'irlanda e la strada è l'unica legge che conti, siamo molto lontani dalle zone turistiche e dal divertimento nei pub.Serie consigliata per chi vuole ampliare la sua conoscenza sull'Irlanda attuale, è una serie tutto sommato ben sceneggiata e con alcuni bei personaggi, tanta violenza e un buon ritmo, una trama che convince e dei colpi di scena ben orchestrati. 

Alla prossima. E se guardate Love/Hate non fatevi comunque spaventare: Dublino non è tutta così. E infatti lo spazzolino io non sono più andato a riprendermelo.




venerdì 6 febbraio 2015

Il Ciclo della Factory di Derek Raymond - La dignità della vittima e la mediocrità dell'assassino

Così alla fine m'è venuta l'influenza. Il lato buono è che ho un po' di tempo per fare le mie cose, quello cattivo che mi sento una pezza. Quando passi la notte con la febbre a 40 in un letto a tremila chilometri dal dottore che ti ha prescritto la prima penicilina ti viene un certo panico, poi però per fortuna ti ricordi che la mamma ti ha caricato in valigia una mezza farmacia e ti dai da fare per curarti da solo. Un'altra cosa che cambia è che non c'è nessuno che viene in camera tua a chiederti come stai. Il dialogo col mio conquilino è stato del tutto privo di empatia per la mia situazione:
"Buongiorno."
"Guarda, sto malissimo. Ho la febbre, il mal di testa, a stento mi reggo in piedi."

"Ah. Se usi un bicchiere mettilo da parte in maniera che non ci beviamo noi per sbaglio. Ed è arrivata la tassa per la televisione. Sono cinquantacinque euro a testa da pagare entro fine mese."
"Sticazzi."
"Come?"
"Niente. Un augurio italiano."
 Passerà anche l'influenza. Intanto almeno mi riposo. 

Oggi parliamo di Derek Raymond. Ci sono scrittori che non sono fenomenali, che non hanno uno stile che ti fa saltare dalla sedia, che non raccontano storie megagalattiche, eppure riescono a reinventare i generi letterari. “Reinventare” sta per trovare nuovi spunti e nuove tematiche quando si crede che ormai il genere abbia detto tutto quello che aveva da dire, una nuova prospettiva da cui guardare la stessa materia che è stata ormai presentata in tutte le salse. Negli anni '80 Derek Raymond reinventa il genere noir e lo ripresenta alle masse da un'angolatura diversa, meno incentrata sull'azione e più sull'introspezione, dando alle stampe i cinque libri del Ciclo della Factory che poi saranno pubblicati in Italia a partire dal 1993 dalla mitica casa editrice Meridiano Zero.







Derek Raymond è lo pseudonimo di Robert William Arthur Cook (1931- 1994), autore londinese dalla vita che sembra essa stessa un romanzo. Animo inquieto e anticonformista, Cook manda ben presto a farsi fottere la società e le sue regole, decidendo di viaggiare per il mondo e di sostentarsi come capita. Vive in Italia, Spagna, Olanda, Marocco, Turchia. Fa il contrabbandiere d'opere d'arte, l'insegnate d'inglese e il tassista, si mette a vendere materiale pornografico, partecipa a corse d'auto illegali, finisce in galera per aver criticato Francisco Franco in un bar. Nel 1960 torna a Londra e due anni dopo pubblica The crust on its uppers con cui si impone all'attenzione della critica, poi lascia di nuovo l'Inghilterra e trascorre quasi tutto il decennio in Italia, dove vive in una comunità anarchica proclamatasi stato indipendente che lo nomina ministro degli esteri e delle finanze. Nel 1970 ritorna di nuovo a Londra, dove si sposa per la terza volta, si mette a lavorare come tassista e adotta lo pseudonimo di Derek Raymond. Sarà con esso che nel 1984 pubblicherà E morì a occhi aperti, il primo dei cinque romanzi del Ciclo della Factory.



La “Factory” è il nome con cui i poliziotti chiamano la sezione “delitti irrisolti” di Scotland Yard, la peggiore di tutte, quella dove non vuole lavorare nessuno. Ai “delitti irrisolti” non si fa carriera, i casi riguardano poveracci di cui non frega nulla a nessuno e i finanziamenti per le indagini arrivano con il contagocce. È qui che lavora il Sergente Senza Nome, uomo dal passato drammatico e dalle ferree convinzioni, un antieroe convinto che le vittime, per quanto insignificanti siano, meritino giustizia e dignità. Osteggiato da un collega con cui verrà spesso ai ferri corti e aiutato da un burbero ma giusto superiore con cui comunica solo al telefono (“La Voce”, lo chiama), il Sergente Senza Nome si muove in una Londra tatcheriana marcia e miserabile fino alle fondamenta, una società dove l'essere umano va progressivamente trasformandosi in bestia e gli istinti peggiori vengono lasciati liberi per le strade in cui scorrono fiumi di sangue e pioggia. Barcamenandosi tra il lavoro, una vita privata segnata all'atroce perdita della figlia e dall'internamento dell'ex-moglie e una solitudine senza speranza, il Sergente Senza Nome sguscia come un'ombra tra tossici, punk, criminali di tutti i tipi, assassini, serial killer, puttane. Non è uno sbirro dal grilletto facile e non ha un fiuto eccezionale, ma possiede una qualità che forse vale più di tutte: conosce l'animo umano.



Ed è l'animo umano, fin dal primo libro, che rappresenta l'argomento principale di questi romanzi. Le vittime così come gli assassini sono analizzati da Raymond attraverso gli occhi del suo protagonista con una profondità sconcertante, una vera e propria discesa nell'inferno della coscienza fino a raggiungere quei recessi nascosti e inconfessabili nei quali la scintilla di pulsioni oscene si tramuta spesso nell'incendio della follia e della violenza. Raymond è considerato l'antesignano di Ellroy; ora, molte delle tematiche e dei modi di affrontarle potranno apparire superate e perfino scontate a chi è familiare con il genere, ma è indubbio che qui riposano le fondamenta del moderno noir. In particolare Raymond si concentra, attraverso gli sforzi del Sergente Senza Nome, sul duplice obbiettivo di ricostruire le vite spezzate dei morti che incontra sul suo cammino e di indagare la mente malata degli assassini, fino a giungere al nocciolo della loro pazzia dove risiede quella che la filosofa Hannah Arendt chiamava “la banalità del male”. Non c'è alcun fascino nei serial killer del Ciclo della Factory: sono solo individui che credono di compiere qualcosa di speciale per sopravvivere alle loro frustrazioni e ai traumi che li hanno resi quello che sono, e una volta che il Sergente li mette a nudo di loro non resta che la patetica immagine di piccoli uomini buoni a null'altro che a spegnere le altrui esistenze. Se però credete che una cosa del genere non abbia il suo prezzo sbagliate: per ogni caso che risolve, per ogni vittima cui restituisce una qualche giustizia, per ogni folle omicida con cui si confronta, il Sergente Senza Nome perde un pezzo di se stesso, tornando al suo squallido monolocale con sempre meno voglia di vivere. Il mondo è un posto schifoso quando il tuo lavoro è rimestare nella melma, e il Sergente abbandona poco a poco ogni speranza di felicità, finendo con il tuffarsi anima e corpo nei suoi casi per tenersi lontano dal vuoto che lo circonda.



Dei cinque romanzi (ce n'è anche un sesto, Quando cala la nebbia rossa, ma è più che altro un'appendice e non ha lo stesso protagonista), il primo è anche il più lento. E morì a occhi aperti è una sorta di manifesto di Raymond del noir così come lo intende lo scrittore, una lunga ricostruzione della vita di un uomo trovato morto attraverso l'ascolto dei nastri cui affidava i suoi pensieri. Non succede molto, non ci sono grandissimi colpi di scena. C'è tanto dolore, c'è la meschinità degli assassini e c'è Londra così com'era a quei tempi, brutta e violenta e governata dalle leggi della sopravvivenza a ogni costo. Oh, non che sia cambiata poi tanto in trent'anni, fidatevi.



Con i seguenti romanzi il ciclo dà il meglio di sé. Aprile è il più crudele dei mesi ci offre un drammatico sguardo sulla vita privata del Sergente mentre indaga su un killer che bolle in pentola le sue vittime, mentre in Come vivono i morti incontreremo un amore disperato che pretende di andare al di là della morte trasformandosi in folle ossessione. Il mio nome era Dora Suarez è di una durezza obbiettivamente difficile da sopportare e mescola il modus operandi di un serial killer bestiale con la tematica dell'AIDS molto sentita in quegli anni, per finire con Il museo dell'Inferno che rappresenta il degno riassunto e conclusione del ciclo.



Il Ciclo della Factory non è facile da leggere, e non è una lettura di intrattenimento. Lo stile di Raymond, come detto, non è pirotecnico, ma va dritto al punto e ci guida attraverso il più doloroso dei misteri, che spesso non è la morte, bensì la vita. Ne consiglio la lettura a chi vuole mettersi alla prova con qualcosa di diverso, tenendo presente che si tratta più di romanzi di approfondimento psicologico che di veri e propri noir.



Un saluto. E non fatevi fregare dall'influenza. Almeno voi.

domenica 1 febbraio 2015

Hell on Wheels: blood will be spilled. Lives will be lost. Men will be ruined.

Ciao, oggi si parla di una serie TV di quelle ad alto livello di testosterone, roba per uomini duri, uomini con i jeans, il cinturone e il cappello a tesa larga. Il West è sempre stato una delle mie passioni, e con Hell on Wheels ho trovato una piccola perla, perciò ve ne voglio parlare. Se siete fans delle serie TV probabilmente lo avrete già guardato o ne avrete almeno sentito parlare, in caso contrario potete leggere questo post e farvene un'idea. Vi dico fin da subito che merita, merita parecchio, e non solo perché chi l'ha prodotto aveva già lasciato il suo marchio su Breaking Bad e The Walking Dead. Merita perché è una bella storia con grandi personaggi. Una storia che si lascia seguire e appassiona. Una storia del West americano, un mondo che ancora oggi vanta milioni di fans sempre pronti a saltare sulla sedia davanti alle sparatorie, alle rapine nei saloon e agli assalti ai treni. Ci vuole poco per far contenti noi maschi. Pupe, pallottole e pugni. Se poi c'è anche una trama be', tanto meglio. 


Hell on Wheels è ambientato nell'America post-guerra civile. L'anno è il 1865 e Cullen Bohannon, un ex-soldato confederato, cerca vendetta contro alcuni militari unionisti che hanno ucciso sua moglie. La sua caccia lo porterà a Hell on Wheels, una cittadina vagante che si sposta seguendo la costruzione della prima ferrovia transcontinentale finanziata dalla Union Pacific dell'affarista e politico senza scrupoli Thomas Durant. Hell on Wheels è un posto lercio e pericoloso, pieno di criminali reinventatisi operai, puttane, scampaforca di tutti i tipi, giocatori d'azzardo, killer e quant'altro. Qui Cullen si muoverà per portare a termine la sua vendetta, ma dovrà vedersela con uomini che tentano di mettergli i bastoni tra le ruote in ogni modo. Bohannon,infatti, è il tipo di persona con un talento naturale per farsi dei nemici, e ben presto inizierà a pestare i piedi a varia gente che tenterà di farlo secco. Non solo Durant, ma anche l'ex-schiavo Elam Ferguson, che in seguito diventerà il suo migliore amico. E poi l'ambiguo reverendo Cole, il folle “Svedese”, pellerossa e mormoni, soldati dell'Unione e bounty killers. Con il procedere della storia Hell on Wheels arriverà a Cheyenne, cittadina senza legge scelta per essere uno snodo nevralgico della ferrovia in costruzione. Qui Cullen Bohannon cercherà di realizzare l'unico obbiettivo che gli è rimasto nella vita: portare a termine la maledetta ferrovia, divenuta per lui una vera e propria ossessione.

Ideato e prodotto da Joe e Tony Gayton, Hell on Wheels funziona alla grande sia come puro intrattenimento che come “drama”, riuscendo ad accontentare vari palati. Chi ama le scazzottate e le sparatorie qui ne troverà a bizzeffe, ma anche chi cerca tematiche più profonde non resterà deluso. Hell on Wheels infatti è una storia di caduta e redenzione, la storia di un uomo che ha perso tutto e tenta disperatamente di dare un senso alla propria vita. È anche una denuncia delle barbarie della guerra: Cullen Bohannon è tormentato dalle atrocità da lui perpetrate quando era un soldato, dal pensiero dalle tante vite che ha spento con le proprie mani. La guerra trasforma gli uomini in bestie, e le quattro stagioni della serie TV dedicano un attento e opportuno sguardo al lungo e tormentato percorso di Cullen per recuperare la propria umanità. Hell on Wheels, la sporca e pericolosa cittadina semovente, è una metafora della seconda opportunità che ogni reietto cerca nella propria esistenza: un punto da cui ripartire, una chance di rivalsa, la speranza che ci sia un futuro migliore da qualche parte e che il passato possa essere lasciato alle spalle per sempre. A Hell on Wheels non solo Bohannon, ma molti altri uomini cercheranno la propria strada. Alcuni troveranno una nuova vita, altri solo la morte che da sempre li seguiva come un cane rognoso lungo una strada lastricata di sangue e scelte sbagliate.

La ricostruzione storica di Hell on Wheels è assolutamente fedele, il mondo selvaggio del West ne esce dipinto con vivido realismo. In particolare io ho apprezzato lo sforzo di regalare un quadro complessivo delle decine di razze, culture e popolazioni diverse che nel 1800 convivevano gomito a gomito, non senza problemi. Ci sono gli irlandesi e gli schiavi neri da poco liberati, i sudisti e i nordisti, ci sono i pellerossa che ancora portano avanti la loro guerra senza speranza contro l'uomo bianco che ha invaso le loro terre. Questa gente così diversa si detesta e si teme, ognuno vede nell'altro un potenziale nemico e una minaccia per gli obbiettivi che si è posto. Il taglio narrativo di Hell on Wheels sembra però voler suggerire che l'unico modo per coesistere in un simile casino multiculturale è la collaborazione, lo sforzo di capire il diverso, l'andare oltre le differenze. E infatti le razze si mescolano, in battaglia e sul lavoro come tra le lenzuola, storie d'amore e amicizie nascono tra uomini e donne appartenenti a mondi diversi. Questa è naturalmente la parte più romanzata della storia, ma non risulta quasi mai forzata e anzi aumenta la voglia di seguire gli sviluppi della trama.

Un'attenzione particolare è riservata a i personaggi femminili. In un periodo storico in cui il mondo è dominato dalla violenza degli uomini e dalla legge delle pistole le donne devono tirare fuori le unghie per scavarsi la propria nicchia nella società, specialmente in un posto come Hell on Wheels. Da Eva, la prostituta rapita dai pellerossa, a Ruth, la pia ragazza di chiesa, passando per le belle e cazzute Lily e Jennifer fino alla remissiva Naomi, le femmine di Hell on Wheels si fanno amare dallo spettatore per la loro tenacia, pur risultando forse nel complesso un po' stereotipate. Ma in fondo quello in cui si muovono è un mondo di maschi, un mondo che non lascia loro molta scelta: puttane, mogli o cameriere, così andava la vita ai tempi. Tra le tante, probabilmente il personaggio di Ruth (interpretata da Kasha Kropinski) è quello meglio tratteggiato. Tutta lacrime, religione e modi gentili, attraverserà un cambio radicale nella quarta stagione. Guardare per credere.

La forza di Hell on Wheels sta nei personaggi, e in particolare in due aspetti di essi: le relazioni che intercorrono tra di loro e lo sviluppo che subiscono nel corso delle quattro stagioni finora realizzate. I personaggi di Hell on Wheels sono tutt'altro che statici: cambiano mestiere e opinioni, scompaiono per riapparire sotto altre spoglie, attraversano mutamenti interiori e si ritrovano coinvolti in situazioni che mai avrebbero immaginato all'inizio dell'avventura. Pensati, tratteggiati e impersonati con grande bravura, i personaggi mandano avanti una storia tutto sommato semplice (la costruzione di una ferrovia) donandole spessore e mordente, attanagliando lo spettatore che finirà per seguirli con sempre maggior passione nelle loro lotte quotidiane. Ecco i personaggi migliori della serie:

Cullen Bohannon (Anson Mount): un uomo distrutto, un assassino che cerca la vendetta e la morte. All'inizio Bohannon è la rappresentazione di chi non ha più nulla per cui vivere, un ex-soldato che ha combattuto una guerra persa, un vedovo, un alcolizzato. Hell on Wheels gli salverà la vita e gli farà riscoprire l'amore, restituendogli pian piano, e non senza un prezzo da pagare, la sua umanità. La ferrovia diventerà la sua ragione di vita, e per portarla a termine dovrà ancora sparare e uccidere. Bohannon è anche l'archetipo dell'uomo condannato a essere violento, l'uomo che cerca di tenersi lontano dai guai ma che si ritrova sempre e comunque le mani sporche di sangue. Anson Mount lo impersona con buona perizia, donandogli il suo sguardo di ghiaccio, il fisico asciutto e il sorrisetto da figlio di buona donna.

Thomas Durant (Colm Meany): attore bravo e famoso (L'ultimo dei Mohicani, Die Hard 2, Con Air tra i film da lui interpretati), Colm Meany si fa amare nei panni del bastardissimo doppiogiochista Thomas “Doc” Durant, che come Bohannon vive per il sogno di costruire la ferrovia. Battute taglienti, modi fini e vestiti costosi, Durant corrompe e ordina omicidi alla maniera dei faccendieri, salvo prendersi cura personalmente di ammazzare qualcuno quando la situazione lo richiede. Il suo rapporto con Bohannon è ambivalente: i due si odiano e si rispettano, si combattono, cercano di ammazzarsi un casino di volte, salvo poi rassegnarsi ad ammettere che stanno combattendo la stessa battaglia. Tutto ciò che li allontana deve cadere davanti all'unica cosa che li accomuna: la ferrovia, la stramaledettissima ferrovia. La partita in cui si giocano tutto, e che non possono permettersi di perdere.

Elam Ferguson (Common): Common inizia la sua carriera come rapper e si consacra attore con Hell on Wheels nella parte del duro Elam Ferguson, un ex-schiavo nero che cerca la sua fortuna nella Union Pacific. All'inizio, come Cullen, è anche lui una bestia, ma l'amore per la prostituta Eva lo cambierà. Anche lui ha un sogno, tanto semplice quanto difficile da realizzare: una casetta, una famiglia, un lavoro onesto. Fianco a fianco con Bohannon combatterà i nemici della ferrovia, fino ad avventurarsi con il suo amico in una missione forse troppo ardua persino per lui. Le due puntate della quarta stagione intitolate “Bear Man” ed “Elam Ferguson” lo vedono come protagonista assoluto, e sono tra le più dure, violente, tragiche e belle dell'intera serie.

Thor Gundersen (Christopher Heyerdahl): Gundersen è norvegese, ma alla ferrovia tutti lo chiamano “lo Svedese”, cosa che lo manda in bestia. Lo Svedese è il vero mattatore della serie, un camaleonte che passa attraverso così tante trasformazioni da perderne il conto. Inglese stentato, faccia di pietra, occhi spiritati e fisico possente, Heyerdahl consegna Gundersen all'Olimpo dei personaggi delle serie TV, assumendosi sulle sue larghe spalle il peso dell'umorismo in Hell on Wheels. Lo Svedese, infatti, oltre a essere pazzo da legare, è il personaggio più divertente dello show, un mix irresistibile di cattiveria pura, follia, idiozia e piani sgangherati. Gli succede di tutto: scompare, trama nell'ombra, viene pestato a sangue, muore un sacco di volte, ritorna, cambia abiti, nome e aspetto, ma mai abbandona il suo obbiettivo: uccidere il fottuto Bohannon, che odia fin dal primo momento in cui si sono incontrati. Grande attore, grande interpretazione. Vale la pena di guardare la serie quasi solo per lui.

Hell on Wheels sta per giungere al termine. Quest'anno verrà trasmessa la quinta e ultima stagione, dove il destino della ferrovia e degli uomini che la costruiscono troverà la sua fine naturale. Serie molto bella, serie onesta e solida che una volta terminata mi mancherà. Ne consiglio la visione, non ve ne pentirete,

Ciao e alla prossima!