mercoledì 31 dicembre 2014

Neve




Così l'anno è finito. È finito con il freddo e il vento e lo Jagermeister, i discorsi impacciati e i racconti di quanto Londra sia uno schifo e di come ti abbia reso più forte, il senso di lontananza che cresceva parola dopo parola, nascosto dalle battute e dalle risate che restavano sulle labbra, ma non raggiungevano gli occhi. È finito ieri l'anno, mentre Johnny Cash mi guardava dalla copertina del libro sulla sua vita che stai leggendo, con la gente nel pub e la musica e le birre, troppe frasi non dette e troppo tempo passato e troppi chilometri, troppi ricordi, tutte cose che hanno scavato una trincea che nessuno di noi si arrischierà mai a superare, perché forse al di là di essa c'è ancora il dolore di ciò che è stato. E mentre te ne andavi sotto la neve che cadeva giù a fiocchi, inspiegabile per Salerno, io sapevo che l'anno finiva in quel momento, che ieri è stato l'ultimo giorno e oggi è solo una formalità trascurabile, come l'appendice di un libro finto che a nessuno interessa leggere, perché le cose importanti stanno nelle pagine che hai già letto. Ciao, e buona fortuna per tutto. Spero che tu abbia davvero la forza di cui parli, e che la vita ti regali tutto quello che vuoi.







Oggi è quel giorno in cui si fanno i propositi per l'anno nuovo. Per me, io ho deciso che nel 2015 voglio riprendere a scrivere. Ho riaperto la cartella dei miei vecchi racconti e ne ho riletti alcuni, mi sono sorpreso davanti alla loro ingenuità e ho ricordato com'ero quando li scrivevo, il perché scrivevo, quella cosa che un po' si è persa ma che può ritornare, anche se diversa. Quest'anno ho finito un romanzo e ne ho un altro vicino alla conclusione, altri due sono ancora solo nella testa e aspettano il momento giusto per venir fuori, ché a comando non so e non voglio scrivere. Ma ho avuto l'impressione che ci fosse del buono lasciato a metà tra quelle pagine seppellite in quella cartella dei miei vecchi racconti, come una moneta sotto la neve, e so che dovrò scavare se me la voglio riprendere, che dovrò passare attraverso un processo lento, come uno che deve ricominciare a camminare dopo un incidente che lo ha tenuto a letto per anni. Tempo ne ho, sigarette anche. Appena torno a Dublino ne parlerò con il vecchio Ray e vedremo cosa mi dice. Spero intanto che stia passando delle buone feste. 

 



A voi ragazzi che leggete questo blog faccio tanti auguri e lascio qui un mio breve racconto. Non è granché ma mi ha fatto piacere rileggerlo, spero sia un punto di partenza per l'anno nuovo.



Ancora auguri, e non bevete troppo stanotte!







E' già successo



“Stavolta ce la faccio” pensava Piero arrancando sulla salita della collina di San Eustachio, la schiena curva sotto il sole e le gambe che pompavano sui pedali.

“Ce la faccio, li ho staccati tutti di almeno un chilometro, nemmeno li vedo più. Michele Sorrenti, Giacomo De Giovannis, e quel buffone del figlio della tabaccaia che vince lui ogni anno e poi va a fare la ruota in piazza come un pavone. Voglio vedere, adesso, se diranno ancora che sono un rammollito.”

La bici nuova, comprata con il sacrificio di sei mesi di lavoro, era in carbonio leggerissimo e sembrava volare. La salita era terribile, ma Piero si era allenato bene e aveva dalla sua il carburante di cinque anni di sconfitte, sangue acido e sfottò duri da digerire, così a mollare non ci pensava nemmeno. Non si sarebbe fermato per niente al mondo, a costo di arrivare al traguardo con il cuore spaccato in due. Non stavolta. Non così vicino a quella rivincita sognata per tanto tempo.

Su in paese, alla fine di quell'infame striscia d'asfalto che tante volte lo aveva umiliato costringendolo a smontare di sella e proseguire a piedi, era già tutto pronto per la festa: il sindaco aspettava impettito con la targa di platino sottobraccio, i paesani chiacchieravano cercando d'ingannare l'attesa e i monelli si rincorrevano sul sagrato della chiesa disturbando l'orchestrina che provava ad accordare gli strumenti. Le ragazze attendevano in piccoli gruppi facendosi aria con i ventagli, infiocchettate come bomboniere nei vestiti più belli, e parteggiavano per questo o quel concorrente. Di tanto in tanto si avvicinavano all'amica del cuore, bisbigliavano il nome del favorito e si ritaevano con una risatina che increspava di tenue malizia le belle labbra appena turgide di rossetto. Piero sapeva che nessuna di loro tifava per lui, immaginava che neppure sapessero che s'era iscritto anche quell'anno, ma si diceva che le cose stavano per cambiare. Quando l'avrebbero visto sfrecciare con le braccia alzate sul traguardo, sudato e scarmigliato per la gran fatica, e quando poi avrebbe preso la targa e l'avrebbe sollevata in aria assieme a un mazzo di fiori, allora si sarebbero tutte accorte di lui. Che ressa avrebbero fatto per invitarlo al ballo di fine estate, e come se lo sarebbero conteso alla sagra della castagna, quando si eleggeva la coppia più bella tra quelle dei giovani di tutto il paese! Piero il solitario, Piero il perdente, Piero che prendeva i calci in culo da tutti stava per scomparire per sempre come una frase sgrammaticata da una lavagna. Al suo posto sarebbe arrivato, in sella a una bici rossa fiammante, un ragazzo nuovo che tutti ammiravano e rispettavano. Piero. Quello che aveva vinto il gran premio di San Eustachio.



Era solo una corsetta di campagnoli, ma per lui aveva un valore incommensurabile. Quando sei lo zimbello di un paese di seicento anime o provi a schiodarti di dosso quella nomea finché sei in tempo o ci convivi finché non crepi, e siccome Piero era giovane e non voleva passare i prossimi sessant'anni a essere deriso sbuffava, sputava e stringeva i denti su quella salita.

Arrivato a metà strada, dove le file degli alberi si aprivano sulla distesa sottostante di campi e cascine bianche, gettò lo sguardo a occidente e vide la sua casa. Gli sembrò di distinguere suo padre seduto sotto il portico, con la pipa in bocca, che leggeva il giornale. Anche quell'anno non era andato a guardare la corsa, per risparmiarsi lo scorno del figlio che arrivava sempre ultimo. Ah, come sarebbe rimasto sorpreso nel vederselo ritornare a casa con il primo premio, non sarebbe stato più nei calzoni per la contentezza. Se ne sarebbe vantato al bar e al lavoro, prendendosi una bella rivincita su tutte quelle canaglie che l'avevano sempre offeso. Per la prima volta sarebbe stato fiero di lui, e avrebbe camminato a testa alta.



Indietro non c'era nessuno. Piero si chinò sul manubrio e trasse da se stesso le forze residue per vincere la spossatezza, bestemmiò santi e pregò diavoli affinché gli concedessero un altro poco di forza, chiuse gli occhi e per un tratto andò avanti senza guardare la strada. Distrutto, mise mano alla borraccia e l'aprì: quattro gocce d'acqua, le ultime, gli piovvero sulla lingua quasi a volerlo prendere in giro. Era davvero allo stremo a quel punto, un uomo solo contro chilometri di dolore.

E poi, improvvisamente, il mondo collassò e si spense. Non del tutto, naturalmente, diciamo che passò dal technicolor al bianco e nero. Diciamo che il sole scomparve, e che il cielo cominciò a rombare e gemere, e il vento a ululare come una vecchia pazza moribonda. L'aria fu attraversata da vibrazioni tremende, una scarica elettrostatica di potenza inaudita, ma neppure questo riuscì a fermare Piero. Testardo come un mulo, troppo determinato perfino per spaventarsi, andò avanti cercando di non guardare. Qualunque cosa fosse doveva finire prima o poi, si disse. Il paese non era lontano, e quella specie di tempesta non poteva durare per sempre.



Il paese gli comparve davanti tutt'a un tratto, solo che era deserto e devastato, un cimitero di ruderi informi che ricordavano solo vagamente le case che lui conosceva e che aveva visto da lontano appena mezz'ora prima. Qualche muro portante svettava su un mucchio di detriti come una gigantesca lapide. La croce del campanile giaceva al suolo spezzata. L'insegna del negozio della tabaccaia era un mosaico di schegge impossibile da ricomporre. Giacche, maglie, pantaloni e scarpe erano abbandonati dappertutto, dei loro padroni non c'era traccia da nessuna parte. Su quella tetra desolazione il cielo piangeva pesanti scrosci di pioggia maleodorante, cancellando i solchi che la bici tracciava sulla strada verso il traguardo. Adesso Piero aveva paura.

Costeggiò mozziconi di edifici e rimasugli di marciapiedi, ma non incontrò nessuno. Un paio di volte gli parve di notare strane sagome sui muri, ma non si avvicinò per guardare. Si fermò invece sotto il portico di casa sua, atterrito dall'ombra di suo padre stampata sul muro del portico. Sembrava seduto, con il giornale in mano e la pipa in bocca come l'aveva visto poco prima dalla salita, ma non era lui, era solo la sua sagoma nera contro la pietra. C'era anche la sedia, vuota, e c'erano i suoi vestiti sparpagliati dappertutto, ma mancava il corpo e non riusciva a capire dove fosse finito. Piero non sapeva spiegarsi quello spettacolo, e si aggrappava alla bicicletta come se temesse di vedersela scomparire da sotto il sedere da un momento all'altro.



Un rumore lo spinse a voltarsi. Dietro di lui c'era una piccola figura intabarrata in uno scafandro bianco, che sembrava fissarlo. Non vedeva la faccia, perché il vetro del casco era traslucido, ma si sentiva addosso uno sguardo curioso che lo metteva a disagio. Restò a fissarlo senza proferire parola, e sebbene non li dividessero che pochi metri Piero ebbe la sensazione che fossero disperatamente lontani, intrappolati in mondi diversi che si sfioravano senza collidere. Uno spasimo atroce gli regalò l'improvvisa consapevolezza di ciò che stava vivendo, un brivido gli svuotò le gambe di ogni energia. Quando parlò la sua voce era un gorgoglio di lacrime sepolto in una gola senza saliva.

– Quando succederà? chiese tremando, le mani strette sul manubrio quasi a volerlo srdadicare dal telaio. La figura non rispose. Si voltò e corse via a gambe levate. Un attimo dopo era sparita dietro un ammasso di calcinacci, lasciandolo solo con il suo incubo.



Il mondo tornò a colori, e Piero tornò sulla sua salita. Oramai era alla fine, e gli bastarono poche pedalate per tagliare il traguardo e vincere. Le ragazze lo baciarono, il sindaco gli consegnò la targa, la banda intonò un motivetto allegro e ballabile. Arrivò perfino suo padre, richiamato dal gran chiasso, con la pipa stretta tra i denti e il giornale sottobraccio, e per la prima volta da quando era stato un bambino lo abbracciò forte. Piero si sforzò di sorridere, ma dentro di lui era morto qualcosa. Sembrava che tutto ciò per cui aveva lottato poco prima, mentre sgobbava sulla collina, non significasse più nulla, che ogni cosa avesse perduto la sua ragion d'essere. Sulla prima pagina del giornale di suo padre, in un trafiletto cui non s'era voluto dar troppo risalto, riuscì a sbirciare un pezzo d'articolo in cui si parlava di relazioni internazionali tese tra l'Italia e l'ex-alleato americano. Volse lo sguardo da un'altra parte e si specchiò nel platino della targa. La sua espressione pallida e spaurita, terribilmente vuota come se il mondo gli si fosse sgretolato attorno, era la stessa che aveva visto riflessa nel casco della figura incontrata tra le macerie.

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– Allora, vi è piaciuta la gita? – stava chiedendo la maestra alla scolaresca, sull'hoverbus che li riportava in città. – Ricordate che bisogna conoscere anche le tragedie della nostra storia per... sì, Clyo?

Clyo si alzò con gli occhi spalancati, scosse il capo e si fregò nervosamente le mani.

Ho visto un signore, nella terra distrutta. – disse Stava sopra uno strano affare a due ruote. Mi ha parlato.

I compagni di classe cominciarono a ridere, ma la maestra impose il silenzio.

– Clyo, come puoi aver visto qualcuno? – sorrise. C'eri anche tu quando ho parlato degli effetti della bomba, e come ho detto non sopravvisse nessuno. Da allora, e ti parlo di circa duecento anni fa, non ci si può spingere in queste zone se non protetti dalle tute antiradiazioni, e soltanto per poche ore alla volta. Non puoi aver incontrato un uomo.

Ma io l'ho visto! – protestò la bambina. I compagni risero più forte.

– Va bene, Clyo, va bene, l'hai visto. Adesso però vogliamo parlare di cose più serie? Chi mi sa dire com'era composta la bomba, e perché fu scelto di sganciarla proprio su questa parte del paese?

Molte mani si alzarono, ma tra esse non c'era quella di Clyo. Lei odiava essere presa in giro, e odiava ancora di più quando la trattavano con condiscendenza per farla stare tranquilla. Ripensò all'uomo sullo strano arnese, alla sua faccia zuppa di sudore e a quegli occhi sgranati, vitrei, a quelle mani serrate che tremavano forte mentre parlava.

“Quando succederà?” le aveva chiesto, sporgendosi in avanti fin quasi a toccarla.

– È già successo – rispose lei tirando fuori il quaderno dei giochi. Dopodiché prese i colori e si mise a disegnare una bicicletta.







venerdì 26 dicembre 2014

Il weird oggi: alcuni titoli consigliati


Rieccoci. Sono ancora tutto pervaso dallo spirito natalizio e dai fumi dell'alcol, anche quest'anno da buon praticante ho celebrato i consueti riti voodoo e sacrificato alcuni agnelli a Dioniso, ma nonostante le mie preghiere ancora una volta Babbo Natale mi ha deluso non regalandomi la barba bionda e gli occhi azzurri. Spero voi abbiate passato un buon venticinque Dicembre con i vostri cari e che vi siate rilassati. Io domenica torno in Italia per una settimana, ma non credo che il mio fegato noterà la differenza. C'è anche da dire che tra aerei, autobus e treni il viaggio per tornare a casa è sempre un gran palo nel culo, poi sette giorni passano presto e devi rifare il percorso al contrario, e non fai in tempo a rivedere mamma e papà, amici e gatti che già devi salutarli. Ah, così è la vita, ragazzi! Si parte, si torna, ci si sposta, si conosce gente, il tutto per uno scopo che mica lo sappiamo qual è. Uno potrebbe pure starsene tutta la vita a casa sua, senza tante rotture d'anima, però poi sarebbe noioso e io quando mi annoio divento depresso e comincio a parlare di Dickens, e nessuno vuole sentire parlare di Dickens. Mi consola pensare che sto facendo questo per lasciare il mio bagaglio di esperienza ai miei futuri familiari. Un giorno avrò dei nipoti, li piglierò sulle ginocchia e gli racconterò della mia gioventù girovaga, e loro mi poggeranno la testa su una spalla e sorridendo mi diranno “vecchio rincoglionito, ce li hai dieci euro per la ricarica Vodafone?” Sono cose che ti fanno sentire realizzato. Viviamo un po' tutti per questo.



Ma ora bando alle pagliacciate, torniamo a parlare della letteratura weird. In futuro tratterò di altri generi letterari, altrimenti sembra che leggo sempre le stesse cose, e non è vero. Del weird e di come Lovecraft sia stato l'autore chiave per la canonizzazione e la diffusione di massa di questo genere ho già detto nel primo post del blog. Il Solitario di Providence non era certo il solo a tener alto lo stendardo del bizzarro all'inizio del '900, ma è a lui che si deve la cristallizzazione dei tratti identificativi del weird. Un genere letterario non può definirsi tale se non rispetta due parametri: delle linee-guida tematiche e stilistiche che lo identifichino e un certo numero di autori che le rispettino, creando un numero più o meno vasto di opere che possono rientrare sotto un'unica dicitura. Le tematiche sono quelle di cui ho già parlato: l'ignoto, i pantheon reali o immaginari, il senso di schiacciante predeterminazione del destino umano davanti a forze che giocano con la vita senza possibilità di fuga. Lo stile, be', era quello ritenuto ai tempi il più efficace, che ad oggi sembra forse un po' datato e che naturalmente è passato attraverso un processo di modernizzazione. Parliamo quindi oggi del weird ai giorni nostri, di come la lezione lovecraftiana è stata assimilata, rielaborata e se vogliamo svecchiata per essere riproposta ai lettori dei secoli XX e XXI. È un lungo viaggio che parte dalle Montagne della Follia e termina sull'asfalto delle nostre autostrade, un processo tutt'ora in corso che ha ancora potenzialità immense e fa ben sperare per il futuro. Gli autori che oggi si cimentano con il weird hanno Lovecraft sempre ben presente nella loro mente, ma giocano a loro piacimento con le carte servite loro da H.P. per ricreare quel senso del bizzarro che rappresenta uno dei più efficaci strumenti di intrattenimento mai offerti dalla letteratura. Il weird di oggi si arrampica sui grattacieli e striscia nei tunnel della metropolitana, infesta le campagne e i computer, fa balzi avanti e indietro nel tempo mostrandoci un futuro inquietante o regalandoci uno sguardo alternativo sul passato. Lovecraft è sempre lì, che annuisce soddisfatto dei suoi pupilli, vivo e attento dal suo trono da qualche parte in mezzo a una galassia sperduta dove si è ritirato dopo che le sue spoglie mortali abbandonarono questo mondo.



Iniziamo a parlare di alcuni titoli che sono riconducibili al weird contemporaneo. Alcuni sono molto conosciuti, altri forse meno. L'intento è quello di fornire una piccola prova di come il genere offra una grande gamma di possibilità e di come queste siano sfruttate dai diversi autori. Tematiche, ambientazioni e personaggi possono essere molto differenti tra loro, alcuni di questi lavori vengono classificati come urban fantasy, new fantasy o horror puro, ma le loro radici affondano sempre in profondità verso il weird come l'ho inteso nel primo post. Un appunto, ragazzi, come per le serie TV: la maggior parte di questi libri io li ho letti in inglese. Se il vostro inglese è buono, fatelo anche voi. Mi ringrazierete.



American Gods di Neil Gaiman

Trama: una ex-galeotto la cui moglie è morta in condizioni imbarazzanti si ritrova al centro di eventi cui non riesce a dare una spiegazione. Scoprirà, man mano che la storia procede, di essere la pedina fondamentale nella partita giocata tra due fazioni opposte di divinità in lotta tra loro.







A mio parere non si può non iniziare con American Gods, strafamoso e pluriacclamato libro del buon vecchio Neil. In questo romanzo Gaiman rispolvera i pantheon delle nostre religioni attuali e di quelle dimenticate, resuscita divinità morte da tempo e le sbatte nell'America dei giorni nostri, umanizzandole con grande maestria. Un romanzo “on the road” sul quale si innesta l'eterna lotta tra il bene e il male, raccontata attraverso le peripezie di un protagonista vittima degli eventi che crede di muoversi liberamente in quello che è in realtà un copione scritto per lui da mani che non sono di questa Terra. Quello che stupisce in American Gods è l'assoluta facilità con cui Gaiman ricrea la sospensione dell'incredulità, quel piccolo miracolo narrativo che porta il lettore a inabissarsi nella storia nonostante la presenza di elementi assolutamente non realistici, un patto tra chi scrive e chi legge che può aver luogo solo se l'autore possiede gli adeguati strumenti tecnici. Vedrete una ragazza afferrare la luna dal cielo e trasformarla in una moneta d'argento, e vedrete gli dèi cavalcare i cavallucci di una giostra che è in realtà una porta per un'altra dimensione. Il tutto descritto con lo stile moderno dei giorni nostri, perfetto per accompagnarci nel corso dell'avventura. Sì, il finale ha deluso molti (anche me, lo ammetto), ma ciò non toglie che con American Gods Neil Gaiman si sia consacrato come uno dei nomi di spicco del fantastico contemporaneo. Grande lavoro di documentazione dietro questo libro che è da tempo un classico del suo genere.



King Rat di China Mieville

Trama: un ragazzo torna a Londra e si addormenta nell'appartamento del padre, per scoprire il mattino dopo che questi è stato ucciso in circostanze truculente e misteriose. Da qui in poi incontrerà una sarabanda di personaggi che altro non sono che la reincarnazione di antichi miti del folklore di tutto il mondo, esplorerà le fogne della City, scoprirà di avere poteri non umani e si ritroverà invischiato nella battaglia all'ultimo sangue tra il Re dei Ratti e il suo eterno nemico, il Pifferaio di Hamelin.







Inglese come Gaiman, China Mieville esordisce nel '98 con questo buon romanzo che contiene le premesse per i suoi futuri lavori di maggior successo. Anche qui assistiamo alla lotta tra esseri sovrannaturali, ambientata in una Londra sporca e claustrofobica in cui presenze che i più credono appartenere al mondo della fantasia si combattono giorno dopo giorno mentre la vita degli ignari esseri umani scorre apparentemente placida. Anche qui, e non è un caso, il destino del protagonista è segnato: il giovane Saul ricorda molto il narratore di The Shadow over Innsmouth di lovecraftiana memoria e anche la scoperta che farà alla fine della storia non è troppo lontana dalla tragica rivelazione che si palesa di fronte al malcapitato studente recatosi nella cittadina del Massachussets. King Rat piace anche per la profondità di alcune metafore: il personaggio del Re dei Ratti, che fatica a tenere a bada l'indole caotica del suo stesso popolo, sembra l'incarnazione sudicia e disillusa di un moderno Satana ribellatosi a ogni legge. Il mondo delle fogne in cui i ratti sciamano in legioni uccidendosi, mangiandosi e combattendosi a vicenda è la trasposizione in forma animalesca di una società totalmente in preda all'anarchia e alla legge della sopravvivenza. Grande battaglia finale, un libro consigliato.



La Trilogia del Drive-In di Joe R. Lansdale

Trama: una sera come tante, in una cittadina della provincia americana, della gente si reca a un drive-in. A un tratto compare nel cielo una cometa e queste persone si ritrovano prigioniere, la città intorno a loro è scomparsa e inizia il delirio. Il drive-in diventa una società a sé stante con regole da barbari e mostri che si combattono per la supremazia, il cannibalismo e altri atti abominevoli vengono consumati con sempre minor ritegno man mano che i sopravvissuti si abbrutiscono sempre più. Dal primo libro, in cui si racconta quello che accade nel drive-in, i protagonisti partono poi per un viaggio disperato in cerca di una spiegazione, fino a che giungono, alla fine del terzo capitolo, a scoprire l'assurda verità.







Se per weird vogliamo intendere l'assurdo, l'inspiegabile e il grottesco che irrompono all'improvviso nella vita di tutti i giorni sconvolgendola e precipitando ogni essere umano in una voragine di paura e sconcerto, allora La Trilogia del Drive-In centra in pieno il bersaglio. Se conoscete lo stile di Lansdale potete immaginare il tono sboccato, umoristico e caciarone in cui la storia viene narrata, ma ciò non toglie nulla al senso di straniamento che, soprattutto nel primo libro, questo romanzo è capace di comunicare. Questo lavoro non è puro entertainment. Questo lavoro parla delle domande che l'uomo si fa di fronte all'ignoto, del sovvertimento delle regole sociali quando la realtà ti scompare da sotto gli occhi, dell'istinto di sopravvivenza capace di mandarti avanti nonostante tu non voglia più vivere, di come si possa diventare insensibili alla morte quando la morte è tutto ciò che ti circonda. Potete anche leggerlo solo per divertirvi, e vi farete grasse risate. Se però ci riflettete un po' su ci troverete qualcosa d'altro, e vi lascerà più soddisfatti.



Il Sentiero di Legno e Sangue di Luca Tarenzi

Trama: Un burattino di legno si ridesta in un mondo che sembra il sogno allucinato di un pazzo e deve lottare contro alcune entità che intendono distruggerlo. Rilettura fantasy e molto weird della storia di Pinocchio.







Bel romanzo uscito qualche anno fa a opera di Tarenzi, che con esso si fece conoscere nel panorama weird/urban fantasy/young adults (avvertenza: gli ultimi tre generi letterari non sono mai esistiti). Fin dalla prima scena il libro comunica un senso di estraneità molto efficace, Tarenzi dimostra una fantasia molto fervida e dipinge paesaggi che sembrano quadri di Dalì, impossibili da dimenticare, stranianti e alieni come in alcuni dei racconti più “onirici” di Lovecraft. La storia è avvincente e assolutamente non banale, il senso di estrema solitudine che il personaggio del burattino comunica appassiona il lettore e lo guida fino al bel finale. Geppetto, il Grillo Parlante, Mangiafuoco, la balena: ci sono proprio tutti, ma non sono quelli che credete. Tarenzi li trasforma in creature a metà tra una sorta di cyborg steampunk e qualcosa di ultraterreno, pur senza snaturarle del senso donato loro da Collodi. C'è un po' di tutto in questo libro: un po' di poesia, un po' di violenza, un po' di dolore, un po' di paura e un po' di sorrisi. Tarenzi poi l'ho perso di vista, ma so che ha pubblicato altre cose. Forse ci rincontreremo.



The Sad Tale of the Brothers Grossbart di Jesse Bullington

Trama: in pieno medioevo, mentre la pestilenza miete vittime in tutta Europa, i bruttissimi, sporchissimi e stupidissimi gemelli Grossbart, discendenti da una stirpe di ladri di tombe, commettono un massacro tanto efferato quanto inutile. Braccati dalla legge abbandoneranno il loro villaggio in Germania e si ritroveranno coinvolti in ogni genere di avventure con mostri, streghe, demoni e donne, sulla strada per il loro folle obbiettivo: arrivare in Egitto e svaligiare la piramide di Cheope.







Libri più weird di questo ne ho letti pochi ultimamente. Bullington è un autore che terrò d'occhio, dallo stile semplice e dalla battuta pronta. La sgangherata storia dei fratelli Grossbart pesca a piene mani nell'horror e nel fantasy, senza trascurare un approfondimento storico che ben cala nel periodo in cui si svolgono i fatti. La commistione di generi è assolutamente gradita dal sottoscritto e rimanda a quanto detto su Lovecraft, il taglio è simile a quello di Lansdale ma ancor più sboccato, con picchi di blasfemia davvero sublimi. Bullington popola il romanzo di creature del folklore e della mitologia, gioca con la stregoneria e con la paura della peste che atterrì il medioevo, riempie i dialoghi dei due fratelli di dissertazioni assolutamente sorprendenti sulla religione e riversa ettolitri di sangue e quintali di interiora nelle pagine di questa storia senz'altro godibile. Il destino dei Grossbart, per quella tara del sangue tanto cara a Innsmouth, è però segnato: il finale ci fa comprendere come gli uomini possano venir fuori da mille disavventure con le loro forze, ma quando si ritrovano di fronte al giorno fatale, quello per cui sono nati, quello da cui non si scappa, quello che i tuoi antenati hanno preparato per te, allora tutto risulta inutile.



Finito anche per questa volta. Se non avete letto nessuno di questi libri iniziate con American Gods. Se avete già letto American Gods leggete La Trilogia del Drive-In. Se invece siete lettori più hardcore potete valutare qualsiasi altro dei titoli qui elencati. O nessuno, ché tanto a me gli autori non mi pagano mica, ma sono libri belli e divertenti e li consiglio tutti.

La prossima volta che parleremo di libri, come ho preannunciato, non parleremo di weird. Un saluto.

domenica 21 dicembre 2014

Dieci posti in cui ubriacarsi a Dublino

Rieccoci. Come va? A me non malaccio, grazie. Tra l'ultimo post e questo qui che vi apprestate a leggere ci sono stati un trasloco, una festa d'addio, tanti abbracci con persone che spero di rivedere e il divorzio definitivo tra il mio portatile e il mio Ipod, che hanno deciso di non riconoscersi più a vicenda impedendomi di caricare le mie canzoni. Non erano mai andati molto d'accordo, prima o poi doveva succedere. Le relazioni tra gli aggeggi tecnologici sono misteriose, ma non molto dissimili a quelle umane: il giorno prima va tutto bene, il mattino dopo scopri che qualcosa si è rotto. Secondo me comunque ha ragione il portatile. Quell'Ipod tornava sempre tardi a casa la sera, e per giunta l'ho preso di seconda mano, non è un tipo fedele. Lo aspetta il funerale che riservo a tutti i dispositivi che mi tradiscono, celebrato come da tradizione dalla suola numero 43 della mia Caterpillar. 

Siccome non è che passo tutto il mio tempo a leggere o guardare serie TV oggi parliamo anche un po' di Dublino, la città dove al momento vivo e lavoro. Non delle sue attrazioni turistiche e non della sua grande storia, oggi parliamo di dove ubriacarsi a Dublino. Se venite qui in vacanza o meglio ancora per viverci, dovete bere. Se siete astemi scegliete un'altra meta, questa città non vi accoglierà. Dublino è un posto per chi ama bere, e soprattutto per chi vuole farlo non con l'intento di distruggersi e star male, ma con quello di divertirsi e farsi dei nuovi amici. I rapporti umani e le sbronze vanno di pari passo qui, bere è un'abitudine sociale assolutamente accettata e nulla di tutto quello che succede in città prescinde dall'avere in mano una buona pinta di birra, preferibilmente Guinness. L'irlandese medio beve da 100 a 155 litri di birra all'anno, il che piazza questa nazione con poco più di sei milioni di abitanti nella top 25 dei paesi che consumano più alcol in assoluto. Dieci volte in meno la popolazione dell'Italia, ragazzi, eppure ci surclassano! I nostri nonni e bisnonni, quelli venuti su a bicchieri di vino rosso e quartini di grappa, si vergonerebbero di noi! Si beve troppo poco in Italia, e sì che ce ne sarebbero tutti i motivi. Ecco comunque una stima dei paesi che bevono di più. Sì, in Moldavia sembrano effettivamente avere qualche problemino. 



Una premessa, amici: io posso avere lacune in letteratura, i miei gusti musicali faranno pena, non capirò nulla di cinema, ma quando si parla di introdurre sostanze alcoliche nell'organismo vi potete fidare, parlo con cognizione di causa. Io entro in pub di quartiere in cui sono l'unico straniero con la disinvoltura con cui voi entrate nella cucina di casa vostra, mi siedo e divento amico di tutti. Perché so bere, mi viene naturale, c'ho lo spirito giusto. Posseggo anche un certo stile nell'appoggiare i gomiti al bancone, una grazia tutta mia nel posare il sottobicchiere sulla pinta quando vado a fumare, pure una bella faccia da cazzo se vogliamo proprio essere sinceri. Il complimento più bello me lo ha fatto il gestore di un pub irlandese a Londra, l'anno scorso: “this son of a bitch drinks like an irishman!” Solo venendo qui a Dublino ho capito cosa intendeva.

Quindi, compagni, se avete in programma di visitare Dublino e volete avere un good time alcolico, fidatevi di me: visitate questi posti che sto per elencare, non ve ne pentirete. Ma visitateli con l'animo della scoperta, non con quello del turista che guarda tutto attraverso l'obbiettivo della sua videocamera e alla fine torna a casa con tante foto e poche esperienze. Vivete la città. Poche meritano di essere scoperte come Dublino, e poche vi regaleranno così tanto.
  
Matt Weldon's: non posso non iniziare dal pub dove mi sono recato tutte le sere negli ultimi sette mesi e dove ho conosciuto Ray. Situato nella pericolosissima Ballymun, una delle zone più malfamate di Dublino, il Matt Weldon's è un pub per over 50, gente del quartiere simpaticissima e socievole. Il venerdì sera c'è il karaoke e il sabato qualche sgangherato e musicista in là con gli anni che suona con le basi registrate e una chitarra scordata. Non è un pub del centro, e si vede, ma è un vero pub irlandese ed è uno dei migliori se volete gustare quell'atmosfera che Joyce descrive tanto bene in “Dubliners”. Qui potete trovare, oltre al vecchio Ray sempre pronto a invitarvi al suo tavolo, dei personaggi caratteristici e assolutamente imperdibili: un barista di quarantacinque anni totalmente pazzo che ad Halloween ha servito da bere vestito da donna (con tanto di parrucca e parlando in falsetto per cinque ore), un cantante lirico soprannominato “Pavarotti” che quando si ubriaca tiene concerti tra i tavoli e Mr. Matt Weldon in persona, che per cavargli due parole di bocca devi usare l'uncino e che in sette lunghi mesi mi ha rivolto solo due frasi: “Abbassa la suoneria del cellulare” e “Se un giorno avrai bisogno di un lavoro vieni a chiederlo a me”. Un posto che mi è rimasto nel cuore. Respect. 

Dicey's Garden: cambiamo del tutto registro. Il Dicey's è uno dei più famosi club di Dublino, un posto per studenti stranieri e giovinastri festaioli, frequentato all'ottanta percento da gente che ha meno di trent'anni. Situato alla fine di Grafton Street, il Dicey's è un carnaio in cui risuona musica commerciale e si balla gli uni addosso agli altri, versandosi birra addosso e cercando di pomiciare con qualsiasi cosa abbia una gonna e un paio di tacchi a spillo e sia abbastanza sobria da non vomitarvi in bocca. Al Dicey's beccherete una donna se siete minimamente passabili. Al Dicey's qualsiasi pinta costa due euro il martedì e il giovedì. Al Dicey's, tempo addietro, il mio ex-coinquilino mi rivelò il segreto più recondito per avere successo con le ragazze: “Resta sobrio, lasciale bere e aspetta che abbassino i loro standard.” A buon rendere, A Man. La mia autostima ti sarà per sempre riconoscente. 

Gypsy Rose: sulla riva del Liffey, dal lato Temple Bar, sorge questo ritrovo per metalheads, rockettari e altri alternativi. Al bar principale ci sono musicisti tutte le sere, mentre nel piano interrato suona sempre qualche band e dopo la mezzanotte nel weekend c'è la discoteca metal con il dj che mette su i Metallica, i System of a Down, Rob Zombie, Danzig, i Pantera, i Rage Against the Machine e tanto altro. Ballando là sotto si possono fare conoscenze interessanti, non è raro beccare una squinzia in vena di fare due salti. C'è anche una bella smoking area perfetta per socializzare, ma soprattutto ci sono le bariste più fighe di Dublino, tatuate e poco vestite, e se siete fortunati vi disegneranno un bel cuore nella schiuma della Guinness. Occhio a come le approcciate però, perché uno dei buttafuori era negli Hell's Angels e anche gli altri non scherzano. Il sottoscritto è di casa e mi vogliono bene. Se però ci andate e vi ritrovate nei guai, io a voi non vi conosco. 

The Porterhouse in Temple Bar: di pub Porterhouse ce ne sono vari a Dublino, ma quello a Temple Bar è mostruoso. Tre piani, diversi bar, un'area per la musica live e un sacco di tavoli. Al Porterhouse si mangiano hamburger e si bevono craft beers, quindi no Guinness. La scelta è davvero vasta e alcune di queste birre hanno un gusto davvero particolare, consiglio di provarle se non altro perché se non lo fate qui non ne avrete più l'occasione.

Fibbers: il Fibbers è un altro pub rock molto in voga, anche qui suonano molte band. Si trova in Parnell Street ed è un posto perfetto per qualche partita di biliardo o per le gare con quel gioco dove tiri una sberla al sacco di cuoio e guardi il punteggio. La gente qui va fuori di testa per questa storia dei pugni e dei punteggi, ho visto veri e propri tornei e a volte ho partecipato, con risultati tutto sommato accettabili. Al Fibbers la percentuale di donne è scarsina rispetto al Gypsy Rose. Più che altro la gente sta in piccoli gruppetti ai tavoli e si fa i fatti suoi.   

The Auld Dubliner: nel cuore di temple bar c'è il The Auld Dubliner, impossibile da mancare per via delle pareti esterne rosse. Qui i turisti si mischiano agli irlandesi e c'è ressa tutti i giorni della settimana a qualsiasi ora, i musicisti si alternano suonando dal vivo pezzi easy-listening e si balla tutta la notte. L'atmosfera è allegra e la festa coinvolge tutti, impossibile non farsi tirare in mezzo. Donne a pacchi, di tutte le risme: dalle studentesse alle turiste in cerca di avventura, dalle giovani irlandesi con acconciature psichedeliche alle signore di mezz'età decise a non mollare il colpo davanti all'incedere delle nuove generazioni. Grande pub, davvero. Ma se non vi piace il casino lo troverete troppo chiassoso.   

The Oliver St. John Gogarty: di fronte al The Auld Dubliner c'è il St. John, che come colore principale ha il verde. Qui l'atmosfera è un po' più tranquilla, ma tutt'altro che noiosa. I turisti ci sono, e anche i locals, e in più la musica è quella tradizionale irlandese, con musicisti davvero fenomenali. Una Guinness costa sei euro, il prezzo più alto che abbia mai trovato a Dublino, quindi occhio al budget. Bel posto, comunque, consigliato.    

The Ha' Penny Bridge Inn: un gioiellino sulla riva del fiume, lato Temple bar. Qui dentro ci si va per rilassarsi, qui non si urla, non si strepita, qui c'è un'etichetta da rispettare. Qui c'è gente che sa bere. Al piano di sopra c'è musica tradizionale irlandese ed è qui che ho ascoltato per la prima volta “Black is the colour”, ricordo di aver fermato il musicista quasi prima della fine del pezzo e avergli urlato in faccia chiedendogli qual era il titolo della canzone. Non conoscete “Black is the colour?” Preparatevi a piangere.  




The Mazz: al The Mazz in Temple bar c'è bagarre al sabato sera. Brutta acustica per i concerti ma un sacco di gente bendisposta alla socialità, occhio a qualche fattone di troppo che gira nel posto. Locale troppo piccolo per il quantitativo di gente che richiama, classico posto per gente in vena di divertirsi e tirare tardi. Fauna femminile in gran parte proveniente dal Sud America, se sapete ballare andate più o meno sul sicuro. 

The Czech Inn: il night club con la peggiore reputazione di Temple Bar, a mio parere immeritata. Il Czech Inn è un posto frequentato da molte persone dell'est che vanno lì per divertirsi e non rompono le balle a nessuno, c'è anche gente di altre nazionalità e la musica è ovviamente quel tunz-tunz che ci piace tanto. Qui le donne praticamente vi saltano in braccio, però l'atmosfera è fin troppo promiscua e dopo un po' a me personalmente dà noia. Al piano di sopra si può giocare a calcio balilla, un passatempo molto in voga qui. Una notte ci ho giocato con il campione europeo, giuro. Ha giocato da solo contro me e un mio amico e ci ha distrutti. 

Siamo alla fine anche per questa puntata. Se passate da Dublino non mancate questi pub ragazzi, sono sicuro che mi ringrazierete. E non dimenticate di chiamarmi, sono sempre pronto a farmi offrire da bere e quando bevo gratis sono più di compagnia. La prossima volta parleremo della letteratura weird ai giorni nostri. Vi lascio con un classico augurio irlandese: 

May your glass be ever full
May the roof over your head be always strong
And may you be in heaven 
Half an hour before the devil knows you're dead.

mercoledì 17 dicembre 2014

The Leftovers - We're still here

Ieri sera sono andato al pub e mi sono fatto qualche birra con Ray. Abbiamo parlato di cose futili come il tempo e le donne, poi lui si è lanciato in una dissertazione sulle cause storiche, politiche e sociali della seconda guerra mondiale. Ne sa parecchio in materia, quando attacca a parlare di quello che gli sta a cuore non lo fermi più. Con noi c'era anche un anziano signore pelato e grassottello, muto come una statua, che si limitava ad annuire e sorridere. A un tratto gli ho chiesto di scattarmi una foto con Ray e lui era tutto contento, mi ha chiesto dove doveva schiacciare e si è preparato ad utilizzare un Iphone con la concentrazione e il coraggio di di un samurai che affronta da solo un esercito. Ho visto quel vecchio lottare contro una tecnologia che non era neppure stata immaginata ai tempi della sua gioventù, l'ho visto impegnarsi per cercare di capire come un telefono potesse funzionare come una macchina fotografica, stupirsi e ridere. Ha scattato foto a ripetizione, almeno dieci, tutte con una messa a fuoco terribile. Questa è la migliore, siamo io e Ray. Riguardandola, ho pensato che assomiglia un po' a Lemmy Kilminster.

Io e Ray al pub Matt Weldon's


Questo per dire che Ray esiste, non me lo sono inventato. Ora parliamo però d'altro. Parliamo di serie TV.


In questo periodo passo per lavoro otto ore al giorno (nove il sabato) davanti a uno schermo. Ne consegue che la suddetta attività di piantare gli occhi su un monitor, per essere continuata nel tempo libero, deve trovare una giustificazione più che solida nella qualità di ciò che guardo. La qualità, a mio parere, al giorno d'oggi sta tutta nelle serie TV. Da tempo i migliori sceneggiatori, attori e perfino registi hanno abbandonato il grande schermo per concentrarsi sulle serie TV, che permettono un respiro dello storytelling più ampio e possono ormai contare su uno zoccolo duro di appassionati che con costanza ingrossa le fila di una legione di spettatori stufi delle vaccate che il cinema continua a proporre. Cioè, ragazzi, i Transformers. I remake dei remake dei remake di film usciti trent'anni fa. Questi cazzo di supereroi a cui non sembra mai esserci una fine, che guardi la locandina e speri che qualche nemico li sbudelli nei primi dieci minuti di film, e invece vicono sempre e non gli si guasta nemmeno la messa in piega. Vabe', opioni personali, totalmente opinabili. Tanto per dire che preferisco le serie TV, comunque, che raramente mi deludono e se sono davvero fortunato si rivelano dei piccoli capolavori.


Una premessa: guardare le serie TV doppiate è come scopare con il preservativo: ci si perde metà del divertimento. Mi rendo conto che non tutti masticano l'inglese e per qualcuno leggere i sottotitoli può essere noioso, ma il mio consiglio è di sforzarsi comunque. Un esempio su tutti, il primo che mi viene in mente: Boardwalk Empire. Una volta ascoltata la voce di Steve Buscemi non riuscireste a sentirlo doppiato nemmeno con tutta la buona volontà del mondo, semplicemente perché quella voce assurda è parte integrante della sua recitazione, esattamente come gli occhi da pesce morto e il fatto che abbia le rughe da quando andava al liceo. Tra parentesi: Steve Buscemi si è consacrato alla storia con Boardwalk Empire. Ne parlerò più avanti. 

 
Bene, l'anno sta ormai per finire e di serie TV ne ho guardate tante. La migliore del 2014, a mio parere, è stata The Leftovers. Spuntata quasi dal nulla, ma con il marchio di garanzia della HBO, questa serie basata sull'omonimo romanzo di Tom Perrotta mette sul tavolo tante di quelle buone carte da vincere la partita anche contro avversari più blasonati. Prendete una trama accattivante, piazzateci dentro buoni attori, aggiungete una regia convincente, tematiche profonde e una buona dose di violenza e il gioco è fatto. Non è una ricetta particolarmente nuova, non sembra molto difficile, eppure non tutte le serie TV sono capaci di reggere per dieci episodi senza l'ombra di un cedimento. The Leftovers ci riesce. The Leftovers ti prende alla gola fin dalla prima scena e non ti molla fino ai titoli di coda dell'episodio finale, lasciandoti lì a pregare che arrivi presto l'anno prossimo per vedere come continua. Ma ora addentriamoci un po' di più nei dettagli.

 
La Trama:

Il 14 ottobre del 2011, in quello che sembra l'inizio di una giornata qualsiasi, il 2% della popolazione mondiale scompare nel nulla. 140 milioni di persone che erano lì un momento prima semplicemente cessano di esistere, cancellati dal pianeta nel volgere di un battito di ciglia. Il fenomeno ha incidenza globale, le statistiche non offrono nessuna base di indagine, l'assoluta casualità delle scomparse è l'unica certezza. Nessuna spiegazione, nessun indizio su cosa sia stato di questa gente, le teorie religiose e scientifiche si rincorrono e nuovi culti nascono da questa tragedia, cercando di sopperire con la fede alla mancanza di elementi empirici. Tre anni dopo il mondo cerca ancora di risollevarsi dallo shock, i sopravvissuti e tutti quelli che hanno perso una persona cara tentano di tirare avanti come meglio possono. La cittadina di Mapleton, nello stato di New York, è stata pesantemente colpita dalla “Improvvisa Dipartita”. È qui che è ambientata la serie, che segue le vicende di alcuni personaggi e la loro lotta quotidiana contro un ricordo incancellabile e straziante.



La tecnica:

Gli episodi sono diretti, come accade spesso nelle serie TV, da diversi registi. Tra essi spiccano nomi certo non estranei al mondo delle TV series come Peter Berg (che recitò in Chicago Hope e fa anche un cameo in uno degli episodi da lui diretti), Keith Gordon (regista di svariati episodi di Dexter dal 2006 al 2010), Lesli Linka Glatter (Twin Peaks, tra le altre cose), Carl Franklin (Rome, Falling Skies, House of Cards), Mimi Leder (ER), Michelle MacLaren (Hell on Wheels, The Walking Dead), Daniel Sackheim (Law&Order, The Walking Dead). L'omogeneità è assoluta, non un cedimento dalla prima all'ultima puntata, grande lavoro di squadra. Sceneggiatura impeccabile affidata alla supervisione di Perrotta, pochissimi i tempi morti, gestione dei flashback e somministrazione delle info necessarie all'avanzamento della trama sempre attento a non annoiare lo spettatore. Pochi, pochissimi effetti speciali, quasi nulli. La regia è tutta concentrata sui volti e sulle emozioni che da essi traspaiono, molto spesso le parti più significative sono quelle in cui non parla nessuno, dove sono espressioni e gesti a fare la differenza. Musiche azzeccate e sequenze della giusta durata, mai troppo lunghe, completano il tutto senza mai strafare. Un plauso alla scena in cui i “Guilty Remnants” escono dalla casa in slow motion, pronti per la loro missione finale, sulle note di “Nothing else matters” dei Metallica rifatta in versione classica dagli Apocalyptica.



I personaggi principali:

Capo di Polizia Kevin Garvey (Justin Theroux)

Lo guardi ed è un uomo normale, l'americano medio, quasi uno sfigato. Però ha il fisico di un atleta ed è tatutato dal collo alla vita, e allora inizi a rispettarlo. Pillole per dormire, pillole per stare sveglio, occhiali da sole, uniforme e ciuffo sulla fronte. Un padre in manicomio, un figlio scappato di casa, una moglie che lo ha mollato per unirsi a una setta di sciroccati e una figlia che lo incolpa di tutto questo. Kevin Garvey è un serbatoio ambulante di dolore, rimorsi e violenza repressa che si muove attraverso una realtà che gli è sfuggita di mano da troppo tempo, il prototipo dell'antieroe che cerca sempre di fare la cosa giusta e finisce inevitabilmente con l'incasinarsi ancora di più. Theroux gli dona una tristezza spesso disarmante con il suo sguardo da cane bastonato, salvo poi diventare una macchina da guerra quando la rabbia che ha dentro esplode. Theroux potrebbe seriamente vincere qualche premio per questa interpretazione. Vedremo.



Laurie Garvey (Amy Brenneman)

Mia madre era una grande fan del giudice Amy, una serie TV che andava sulla Mediaset anni e anni fa. Il giudice Amy era un po' frigida, un po' rompipalle, ma giusta. Usciva con vari tipi, era innamorata di uno, giudicava i criminali con umanità, li condannava e poi ci stava male e per tirarsi su di morale finiva a letto con qualcuno. La impersonava Amy Brenneman, che qui ritroviamo nei panni di Laurie, moglie di Kevin Garvey. Unitasi a una setta dove è proibito parlare ed è obbligatorio fumare, Laurie ha subito il dolore della “Dipartita” a un livello più profondo di chiunque altro, uno shock che l'ha spezzata dentro fino al punto di convincerla ad allontanarsi dai propri cari. Laurie si è arresa. Laurie ha sofferto troppo. Ha scelto la strada che tanti, sconfitti da un dolore insopportabile, scelgono. La Brenneman in The Leftovers non parla. La Brenneman è un disatro di rughe e capelli in disordine, perfetta per il ruolo di una donna cui non frega più nulla di se stessa e del mondo. Grande prova di recitazione. Odore di premio anche qui.



Tom Garvey (Chris Zylka)

Figlio nato dal primo matrimonio di Laurie, Chris si è allontanato da Mapleton per unirsi alla congrega di un sedicente guaritore che lo usa come tuttofare e guardia del corpo. Chris è uno spiantato dal buon cuore, combattuto tra la fedeltà al suo mentore e l'affetto verso la ragazza che ha giurato di proteggere, troppo giovane per capire dove sta la verità e troppo ingenuo per tenersi fuori dai guai. Buona interpretazione di Zylka, in quello che sarà forse un ruolo di lancio per la sua carriera.



Jill Garvey (Margaret Qualley)

Personaggio un po' stereotipato della figlia arrabbiata col padre, arrabbiata con la vita, arrabbiata con se stessa e col mondo, ma comunque ben tratteggiato. Jill si fa di droghe, va alle feste, si impegna per fare incazzare un padre che ritiene responsabile di tutto quello che è capitato. Personaggio discretamente interpretato da questa giovane attrice con buone potenzialità, prototipo della teenager ribelle e tormentata con seri problemi di asocialità.



Reverendo Matt Jamison (Christopher Eccleston)

Un mattatore. Un prete che cerca di salvare le anime della sua città e al contempo diventa nemico di tutti, mette in giro dei volantini che gettano fango sulla reputazione dei “dipartiti” e si prende più botte di Bruce Willis in un episodio di “Die Hard”. Personaggio ambiguo impossibile da non amare, interpretato da un attore consacrato da cinema e TV (The Others, Doctor Who tra gli altri). Il terzo episodio, Two Boats and a Helicopter, è interamente dedicato a lui, ed è uno dei migliori dell'intera prima stagione.



Megan Abbott (Liv Tyler)

Una donna che alla vigilia del suo matrimonio decide di mandare tutto a farsi benedire e di unirsi al culto dei “Guilty Remnants”, di cui Laurie fa parte. La sua iniziazione non sarà facile, il suo distacco dal mondo passerà attraverso crisi di coscienza, pentimenti e improvvise esplosioni di rabbia. Liv, tutta occhioni blu ed espressioni spaurite, fa del suo meglio per tratteggiare il personaggio forse meno a fuoco della serie, finendo con il fare un lavoro decente ma comunque un po' penalizzato dalla mancanza di un ruolo fondante nella storia.



Le tematiche:

L'elaborazione del lutto

Se guarderete The Leftovers aspettandovi che il mistero della “Dipartita” venga risolto commetterete un errore. La domanda qui non è dove sono andati i dipartiti, né perché sono scomparsi, ne quando o se torneranno. Quello che la serie racconta è come cercano di sopravvivere quelli che sono rimasti, il processo di assimilazione della perdita e di accettazione dell'abbandono cui prima o poi ogni essere umano deve approcciarsi. La “Dipartita” altro non è che una metafora della morte, quella cosa definitiva e inspiegabile con cui non sono i defunti a dover fare i conti, ma i vivi che restano, con le loro domande, i loro ricordi e la loro pena. In questo The Leftovers centra il bersaglio in pieno. Se invece siete di quelli che cercano il finale con “tutto spiegato” resterete delusi.



La famiglia

La famiglia è una cosa difficile da mandare avanti, un delicatissimo meccanismo basato sull'integrazione di elementi instabili e differenti, il cui equilibrio versa in un perenne stato di instabilità pronto ad andare in pezzi quando il destino cambia le carte in tavola. Ma la famiglia è una delle cose più forti che abbiamo, tutto quello cui ci aggrappiamo quando il mondo ci crolla intorno. Kevin Garvey è l'emblema di questo assunto, un uomo che ha delle colpe, uno che poteva comportarsi diversamente, un marito senza più una moglie e un padre fallito che nonostante tutto non getta la spugna. La famiglia è praticamente tutto ciò che gli resta, e lotta per riaverla, testardo come un mulo. Sua controparte nella storia è Nora Durst (interpretata dalla brava e bella Carrie Coon), una donna cui l'intera famiglia è scomparsa nel giorno della “Dipartita”. Nora vive nel ricordo straziante del marito e figli, spariti nel volgere di un secondo, e per lei non c'è possibilità di tornare indietro. La famiglia di Kevin, invece, è ancora qui, e lui vuole riprendersela. Il messaggio sembra chiaro: finché quelli che ami respirano ancora, puoi fare di tutto per aggiustare le cose. Perché quando invece se ne vanno è troppo tardi, e ti restano solo le lacrime.



La religione

The Leftovers dedica uno sguardo attento alla religione, intesa come tentativo di spiegare l'ineluttabilità della morte e rimedio contro il dolore. Dai “Guilty Remnants”, disillusi eremiti in bianco, a Santo Wayne (Paterson Joseph), sedicente santone che guarisce la disperazione e ingravida ragazzine asiatiche cercando di generare il nuovo messia, fino al reverendo Jamison, la serie non molla il colpo su quello che è un aspetto importante, comunque la si veda, della nostra vita. L'uomo ha bisogno della religione, è il suo stesso istinto di sopravvivenza che lo porta a credere che ci sia qualcosa che spieghi tutto, un posto dove la gente va quando scompare. La religione vista dunque come fenomeno sociale e rimedio terapeutico, più che come professione di fede, ultimo baluardo contro i mali del mondo. Ma la religione, in The Leftovers, non sembra essere la risposta, tanto che i personaggi più religiosi sono anche quelli più infelici, ambigui e in alcuni casi cattivi.



Bene, fine di questo lungo articolo. Spero di avervi un po' incuriosito su The Leftovers, vi consiglio davvero di guardarlo. Vista così può sembrare una serie “pesante” e un po' deprimente, ma ci sono anche momenti di humor in cui si sorride, sebbene non tantissimi. Non è una serie per tutti, è una serie che fa riflettere mentre appassiona, che porta a porsi delle domande. Aspettiamo fiduciosi la seconda stagione, prevista per l'anno prossimo. Nella terza puntata del blog credo che parlerò un po' di Dublino. Cheers!






















domenica 14 dicembre 2014

Post Zero: nessuna presentazione, però Lovecraft


Presentazioni non ne faccio. Se siete arrivati su questa pagina vuol dire che più o meno sapete chi sono, perciò credo che non ci sia bisogno di altre parole. Sono un incostante, quindi probabilmente il blog non reggerà, ma per ora parto con l'idea di impostarlo secondo alcune linee-guida che mi sono autoimposto, le quali probabilmente domani mattina mi appariranno totalmente prive di senso e finiranno nel cesso con la velocità di un assorbente usato. Non so se ho già detto che sono incostante. In verità questo aspetto della mia personalità mi piace. A parte il fatto che a volte lo detesto.

Il blog prende il nome da un tizio che ho conosciuto qui a Dublino (vivo al momento in Irlanda): Ray è un ex-hippie sui settant'anni, cliente fisso del pub all'angolo della strada, con un figlio nell'esercito svedese e una figlia in Spagna. Ha viaggiato in lungo e in largo per il mondo, ha lavorato in postacci, si è fatto di droghe che probabilmente non esistono più. Porta sempre il giubbotto di pelle e un cappello da baseball, ha i capelli lunghi fino a metà schiena raccolti in una coda di cavallo, beve abbastanza da far salire il tasso alcolico del quartiere sopra i livelli di guardia e fuma come un senza Dio. Ray legge Pennacchi e adora Fellini e Kurosawa, ascolta gli Hawkwind e i Manic Street Preachers, ha una casa piena di libri e vecchi LP e non ama la religione. Gli piace parlare, così siamo diventati amici. Fino alla quinta pinta di Beamish è un formidabile oratore, poi inizia a dimenticarsi le cose e tende a ripetersi, ma mi piace lo stesso. Ray è al momento una delle poche persone qui in Irlanda con cui posso discutere di libri, cinema e musica, così dedico a lui questo blog. Probabilmente non lo saprà mai. Ciao Ray! Ci vediamo dopo. 

Pronti, via. Qui non ci si diverte, meglio che lo sappiate. Qui si parla di libri, scrittura, altri libri, serie TV, musica da sfigati, di un po' di cose attinenti alla vita reale e poi ancora di libri e qualche film meritevole tra la feccia che infesta i cinema. L'ottanta percento delle attività che mi danno piacere non contemplano la presenza di altre persone, quindi se cercate resoconti di serate mondane o racconti di viaggi avventurosi avete sbagliato pagina. Questo blog è gestito da uno la cui massima idea di vita sociale è sedersi a un pub con un libro sperando che nessuno gli rompa i coglioni, eccezion fatta per Ray. Lo scopo del suddetto blog: condividere ciò che mi piace, senza la pretesa di essere un'autorità in nessuna delle materie che tratterò, ben consapevole che là fuori esistono persone ben più erudite di me. Ci saranno delle falle in quello che scriverò, ci saranno forse degli errori, la precisione e l'indiscutibilità delle informazioni che condividerò potrà oscillare, a seconda del mio mestruo, dal trattato letterario a una conversazione da bar tra avventori al dodicesimo Amaro del Capo. Qualcosa di interessante ce la potrete trovare. Forse. Sempre che questo post veda la luce, ché a scriverlo ci sto mettendo una settimana.

Il primo articolo lo voglio dedicare alle origini della letteratura weird. Ora, non è un inizio molto originale, sul weird ne sono state scritte di parole, ma io do per scontato che ci sia qualcuno che ancora non sa nulla sull'argomento e scrivo per loro. E poi il blog è mio e decido io, e basta. Ho già pronto un post sul teatro d'avanguardia turco di fine '900, ma lo tengo in serbo per quando vorrò raggiungere il milione di visite.
Quindi: cos'è il weird? Difficile dirlo. Non è horror puro, non è fantascienza, non è fantastico in senso stretto, ma combina gli elementi di tutti e tre questi generi unendoli spesso alla dedective story e, talvolta, a generi più specifici come il western o il racconto d'avventura. Nasce a cavallo tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX, grazie ad autori come il sempre troppo poco apprezzato Lord Dunsany, Lovecraft, Kipling e Bierce, in america diventa molto popolare grazie alla rivista Weird Tales che a partire dal 1923 pubblica sulle sue pagine racconti di giovani e talentuosi scrittori come lo stesso Lovecraft, Robert E. Howard, Ray Bradbury e molti altri. La varietà degli argomenti è una ventata d'aria fresca che rinvigorisce il genere fantastico: abbandonati i castelli infestati e le vendette dall'oltretomba di cui il gotico europeo aveva riempito l'800, il weird offre al lettore una vastissima gamma di situazioni e scenari, ponendo le basi per il successo della science-fiction, dell'horror moderno e del fantastico come lo intendiamo oggi. Senza Weird Tales, ragazzi, oggi leggeremmo ancora romanzi strutturati sulla falsariga di Dracula e Il Monaco (ottimi, comunque, ma senza dubbio datati). Senza Weird Tales probabilmente quel panzone di George R. R. Martin si sarebbe trovato un lavoro dalle nove alle cinque, e il mondo sarebbe un posto molto più brutto.

Quindi: GRAZIE, WEIRD TALES!



Siccome sono un tipo alternativo vorrei iniziare a parlarvi dei nomi di spicco del weird citando Ippanzio Patriarchi, misconosciuto autore siculo che nel 1921 pubblicò un manoscritto dal titolo Lu Mostru de la Cava, letto da dodici persone, tutte con il suo stesso cognome, metà delle quali si limitò a osservare le figure dallo stesso Patriarchi vergate, essendo affette da una forma di disagio sociale al tempo molto comune conosciuta come “analfabetismo”. Purtroppo non posso disquisire del Patriarchi, sebbene farebbe tanto figo, e devo invece parlare, in maniera più scontata, di H.P. Lovecraft, perché una dissertazione sul weird non può non prendere le mosse da lui.
Partiamo da Lovecraft, quindi. Nasce a Providence nel 1890, muore a Providence nel 1937. La sua vita è più o meno interessante come le istruzioni per l'uso sulle scatole dei medicinali, l'uomo è incasinato di brutto e trova sollievo solo e soltanto nella scrittura, alla quale si approccia con una passione e un'umiltà che il novantacinque percento degli scrittori d'oggi dovrebbero seriamente cercare di coltivare tra un talk show e un servizio sui giornali di gossip. A parte aver letto l'intera bibliografia di Lovecraft, ho avuto anche la fortuna di poter leggere alcune delle lettere che egli inviava al suo mentore Lord Dunsany e all'amico Alfred Galpin: in esse traspare molto della sua personalità, ed è probabilmente qui, piuttosto che nella sua biografia, che va ricercato l'uomo. L'idea che mi sono fatto è che Lovecraft non fosse del tutto cosciente dell'immane apporto innovativo che stava dando al genere fantastico, si riteneva probabilmente uno scrittore normale ed era molto critico verso ciò che scriveva. Se avete voglia di approfondire la sua attività epistolare ci sono molti volumi che fanno al caso vostro: il mio consiglio è cercare qualsiasi cosa di S.T. Joshi, considerato una delle massime autorità in campo lovecraftiano. 

Lovecraft viene sempre ritratto in quella posa triste col gatto in braccio e gli occhi da pazzo. Questo disegno invece è più bello:

 

Ma ora bisogna parlare del Lovecraft scrittore. Il ragazzo si fa le ossa pubblicando su fogliacci come The Vagrant e The United Amateur, fino a quando nel 1923 arriva su Weird Tales con The Horror at Martin's Beach. Non è il suo migliore racconto, e non potrebbe essere altrimenti in quanto il Nostro è ancora alla ricerca di uno stile personale, siamo ben lungi dalle ambientazioni e dalle tematiche che di lì a qualche lustro lo consacreranno come maestro della paura. Tre anni dopo, però, un altro racconto su Weird Tales segna la strada: The Outsider è una piccola gemma con finale a capovolgimento della prospettiva, capolavoro di stile, tecnica e atmosfera che ancor oggi mi piace rileggere per ricordarmi come si scrive. Voce narrante in prima persona, per calare il lettore nella storia, un senso di solitudine quasi soffocante e una conclusione che getta le fondamenta per quella fortezza affacciata sull'Ignoto che Lovecraft costruirà racconto dopo racconto, senza mai deviare dal percorso prestabilito. Inutile dire che chi ha letto il pezzo vi avrà trovato molto di autobiografico: The Outsider, tra le altre cose, è anche una delle confessioni più esplicite dell'uomo Lovecraft affidate alla penna del Lovecraft scrittore.

Passano gli anni e Lovecraft diventa un mostro. Crea universi, miti, pantheon di divinità abominevoli, costruisce una geografia del terrore che va dal Polo Sud (At the Mountains of Madness) alle sabbie dell'Egitto (Under the Pyramids), dagli abissi marini (“The Call of Cthulhu”) alle profondità delle miniere (The Transition of Juan Romero). Inventa il più famoso libro inesistente della storia, il Necronomicon, e lo popola di maledizioni e profezie infauste che annunciano la venuta di demoni distruttori e viaggiatori interstellari pronti a fagocitare il mondo. Filo conduttore di tutte queste storie è sempre lo stesso: l'incommensurabile, schiacciante impotenza degli esseri umani al cospetto di forze talmente immense da non accorgersi nemmeno della nostra esistenza, entità che si lasciano combattere quasi per noia, consapevoli di non poter essere sconfitte. È qui che si pone l'accento su una delle più grandi differenze tra il gotico ottocentesco e il weird lovecraftiano: i mostri classici possono essere affrontati e sconfitti, mentre non c'è partita contro le entità dell'Altrove. I fantasmi possono essere scacciati, i vampiri uccisi con un paletto nel cuore, perfino la creatura del dottor Frankenstein ha i suoi punti deboli. Si tratta di entità fondamentalmente derivate dall'uomo, aberrazioni che rispecchiano il nostro subconscio e simboleggiano la lotta della nostra parte “buona” contro quella deviata e oscura che alberga in noi. Cos'è Dracula, se non l'emblema delle nostre passioni più abbiette e animalesche? Cos'è il mostro di Frankenstein se non la metafora del tentativo dell'uomo di ricreare se stesso, sostituendosi a Dio? Il gotico ci mostra la lotta dell'uomo contro un ultraterreno relativamente “vicino”, in cui possiamo riconoscere noi stessi e comprendere le tematiche che gli autori mascherano dietro le storie. Il gotico parla della battaglia dell'uomo contro l'uomo, battaglia che può essere vinta da uomini giusti e retti, uomini che sfidano le tenebre e tornano vincitori. In Lovecraft non c'è nulla di questo. I suoi protagonisti sono già condannati, i loro tentativi di sottrarsi al destino che li attende appaiono tanto drammatici quanto patetici. La maggior parte delle volte, sconfitti, si limitano descrivere la catastrofe che progressivamente li schiaccia, sopraffatti dall'indicibile immensità di ciò che hanno avuto la sfortuna di incontrare. Nyarlathotep , Cthulhu, i Grandi Antichi e tutte le altre entità create da Lovecraft non hanno nulla di umano: anzi, sono l'esatta negazione dell'umanità, qualcosa di talmente lontano da noi da risultare impossibile da comprendere. Lovecraft aveva capito una cosa talmente semplice da apparire ovvia: il sentimento più antico e istintivo dell'uomo è la paura. E la paura più grande è quella dell'ignoto.

Terminerò questo articolo citando alcune storie di Lovecraft che a mio parere hanno rivoluzionato il modo di intendere alcuni generi fantastici, e a allo stesso tempo hanno posto le basi per lo sviluppo futuro degli stessi. Si tratta dei miei racconti preferiti, ma forse anche da un punto di vista oggettivo possono essere annoverati tra i suoi migliori. Ne citerò solo tre, per amore di brevità. Sappiate che quelli meritevoli di essere menzionati sarebbero più del triplo.

The Dream in the Witch House (1933)
È uno dei racconti più “classici” di Lovecraft, un horror. Riesce comunque a gettare uno sguardo nuovo sul genere, grazie alla forte componente onirica e al senso di condanna in esso insito, assente nei lavori del secolo precedente. Non si scappa dalla casa della strega, sonno e veglia sono due facce della stessa terribile medaglia e la fine non può essere che tremenda. Aggiungete che in questa storia compare una delle creature più viscide, disgustose e maligne di tutta la letteratura del '900, e il gioco è fatto: Brown Jenkin, il ratto con il volto umano che accompagna la strega, è qualcosa che non si dimentica. Avevo sedici anni quando lessi per la prima volta questo racconto. Ora ne ho troppi, ma le sensazioni che mi provoca sono sempre le stesse, e Brown Jenkin, che nella storia non dice nulla di coerente, è ancora lì a squittire le sue maledizioni con la sua vocina da demonio.

The Shadow over Innsmouth (1936)
Un capolavoro. Qui il racconto del terrore si fonde con la detective story e le tematiche più care a Lovecraft, quelle delle stirpi non-umane che abitano in segreto la Terra. Questo lungo racconto è la naturale evoluzione di Dagon, datato 1919 e a mio parere troppo acerbo. Se Dagon era un primo sguardo sulla razza di esseri metà pesce e metà anfibio che da tempo immemore si stabilirono nel nostro mondo, The Shadow over Innsmouth ci mostra cosa è successo millenni dopo, quando il sangue di quelle creature si è mescolato a quello degli abitanti di una cittadina del Massachussets attraverso generazioni di accoppiamenti contro natura. Anche qui, dietro l'investigazione che accompagna la storia, c'è il sempre presente senso di ineluttabilità del proprio destino: il protagonista è già condannato prima di mettere piede a Innsmouth, quello che all'inizio è un viaggio di piacere sulle orme dei luoghi cari alla sua famiglia si rivela essere il richiamo di qualcosa che gli abita dentro e lo lega, senza possibilità di salvezza, alla cittadina. L'ultima scena, in cui figure deformi e bestiali si stagliano contro il cielo notturno illuminate dalla luna, è da applausi. Giuseppe Lippi, massimo studioso di Lovecraft in Italia, ha definito questo racconto il punto più alto della carriera dello scrittore americano.

The Colour out of Space (1927)
Il mio preferito in assoluto, ancor oggi insuperabile mix di horror e fantascienza. In questo racconto Lovecraft somministra la tensione e l'orrore con il contagocce, guidando il lettore in una progressiva discesa fino alle viscere di una morte che arriva da oltre le stelle, sulle ali da insetto dei Grandi Antichi. Ciò che davvero risalta in questo lavoro è l'assoluto senso di smarrimento degli uomini di fronte a qualcosa che li uccide lentamente e che non riescono assolutamente a spiegare, la resa della ragione al cospetto di forze tanto schiaccianti quanto invisibili. Se leggete questo racconto vi ritroverete, verso la fine, davanti alla porta di una soffitta. Aprendola insieme al protagonista e gettando uno sguardo a ciò che c'è dall'altra parte capirete cos'è davvero l'orrore così come lo intendeva Lovecraft, e un brivido vi percorrerà la schiena.

Bene, per ora è tutto. Ci sarebbe ancora tanto da scrivere su Lovecraft, ma questo articolo non pretende di essere un vademecum in materia, piuttosto un'introduzione allo scrittore e uno sprone a conoscerlo per chi non ha mai letto nulla di suo. Del weird tornerò a parlare più in là, citando altri scrittori e lavori meritevoli, vecchi e nuovi. Buona domenica e buon proseguimento. Magari ci ritroviamo qui la prossima settimana.