mercoledì 17 dicembre 2014

The Leftovers - We're still here

Ieri sera sono andato al pub e mi sono fatto qualche birra con Ray. Abbiamo parlato di cose futili come il tempo e le donne, poi lui si è lanciato in una dissertazione sulle cause storiche, politiche e sociali della seconda guerra mondiale. Ne sa parecchio in materia, quando attacca a parlare di quello che gli sta a cuore non lo fermi più. Con noi c'era anche un anziano signore pelato e grassottello, muto come una statua, che si limitava ad annuire e sorridere. A un tratto gli ho chiesto di scattarmi una foto con Ray e lui era tutto contento, mi ha chiesto dove doveva schiacciare e si è preparato ad utilizzare un Iphone con la concentrazione e il coraggio di di un samurai che affronta da solo un esercito. Ho visto quel vecchio lottare contro una tecnologia che non era neppure stata immaginata ai tempi della sua gioventù, l'ho visto impegnarsi per cercare di capire come un telefono potesse funzionare come una macchina fotografica, stupirsi e ridere. Ha scattato foto a ripetizione, almeno dieci, tutte con una messa a fuoco terribile. Questa è la migliore, siamo io e Ray. Riguardandola, ho pensato che assomiglia un po' a Lemmy Kilminster.

Io e Ray al pub Matt Weldon's


Questo per dire che Ray esiste, non me lo sono inventato. Ora parliamo però d'altro. Parliamo di serie TV.


In questo periodo passo per lavoro otto ore al giorno (nove il sabato) davanti a uno schermo. Ne consegue che la suddetta attività di piantare gli occhi su un monitor, per essere continuata nel tempo libero, deve trovare una giustificazione più che solida nella qualità di ciò che guardo. La qualità, a mio parere, al giorno d'oggi sta tutta nelle serie TV. Da tempo i migliori sceneggiatori, attori e perfino registi hanno abbandonato il grande schermo per concentrarsi sulle serie TV, che permettono un respiro dello storytelling più ampio e possono ormai contare su uno zoccolo duro di appassionati che con costanza ingrossa le fila di una legione di spettatori stufi delle vaccate che il cinema continua a proporre. Cioè, ragazzi, i Transformers. I remake dei remake dei remake di film usciti trent'anni fa. Questi cazzo di supereroi a cui non sembra mai esserci una fine, che guardi la locandina e speri che qualche nemico li sbudelli nei primi dieci minuti di film, e invece vicono sempre e non gli si guasta nemmeno la messa in piega. Vabe', opioni personali, totalmente opinabili. Tanto per dire che preferisco le serie TV, comunque, che raramente mi deludono e se sono davvero fortunato si rivelano dei piccoli capolavori.


Una premessa: guardare le serie TV doppiate è come scopare con il preservativo: ci si perde metà del divertimento. Mi rendo conto che non tutti masticano l'inglese e per qualcuno leggere i sottotitoli può essere noioso, ma il mio consiglio è di sforzarsi comunque. Un esempio su tutti, il primo che mi viene in mente: Boardwalk Empire. Una volta ascoltata la voce di Steve Buscemi non riuscireste a sentirlo doppiato nemmeno con tutta la buona volontà del mondo, semplicemente perché quella voce assurda è parte integrante della sua recitazione, esattamente come gli occhi da pesce morto e il fatto che abbia le rughe da quando andava al liceo. Tra parentesi: Steve Buscemi si è consacrato alla storia con Boardwalk Empire. Ne parlerò più avanti. 

 
Bene, l'anno sta ormai per finire e di serie TV ne ho guardate tante. La migliore del 2014, a mio parere, è stata The Leftovers. Spuntata quasi dal nulla, ma con il marchio di garanzia della HBO, questa serie basata sull'omonimo romanzo di Tom Perrotta mette sul tavolo tante di quelle buone carte da vincere la partita anche contro avversari più blasonati. Prendete una trama accattivante, piazzateci dentro buoni attori, aggiungete una regia convincente, tematiche profonde e una buona dose di violenza e il gioco è fatto. Non è una ricetta particolarmente nuova, non sembra molto difficile, eppure non tutte le serie TV sono capaci di reggere per dieci episodi senza l'ombra di un cedimento. The Leftovers ci riesce. The Leftovers ti prende alla gola fin dalla prima scena e non ti molla fino ai titoli di coda dell'episodio finale, lasciandoti lì a pregare che arrivi presto l'anno prossimo per vedere come continua. Ma ora addentriamoci un po' di più nei dettagli.

 
La Trama:

Il 14 ottobre del 2011, in quello che sembra l'inizio di una giornata qualsiasi, il 2% della popolazione mondiale scompare nel nulla. 140 milioni di persone che erano lì un momento prima semplicemente cessano di esistere, cancellati dal pianeta nel volgere di un battito di ciglia. Il fenomeno ha incidenza globale, le statistiche non offrono nessuna base di indagine, l'assoluta casualità delle scomparse è l'unica certezza. Nessuna spiegazione, nessun indizio su cosa sia stato di questa gente, le teorie religiose e scientifiche si rincorrono e nuovi culti nascono da questa tragedia, cercando di sopperire con la fede alla mancanza di elementi empirici. Tre anni dopo il mondo cerca ancora di risollevarsi dallo shock, i sopravvissuti e tutti quelli che hanno perso una persona cara tentano di tirare avanti come meglio possono. La cittadina di Mapleton, nello stato di New York, è stata pesantemente colpita dalla “Improvvisa Dipartita”. È qui che è ambientata la serie, che segue le vicende di alcuni personaggi e la loro lotta quotidiana contro un ricordo incancellabile e straziante.



La tecnica:

Gli episodi sono diretti, come accade spesso nelle serie TV, da diversi registi. Tra essi spiccano nomi certo non estranei al mondo delle TV series come Peter Berg (che recitò in Chicago Hope e fa anche un cameo in uno degli episodi da lui diretti), Keith Gordon (regista di svariati episodi di Dexter dal 2006 al 2010), Lesli Linka Glatter (Twin Peaks, tra le altre cose), Carl Franklin (Rome, Falling Skies, House of Cards), Mimi Leder (ER), Michelle MacLaren (Hell on Wheels, The Walking Dead), Daniel Sackheim (Law&Order, The Walking Dead). L'omogeneità è assoluta, non un cedimento dalla prima all'ultima puntata, grande lavoro di squadra. Sceneggiatura impeccabile affidata alla supervisione di Perrotta, pochissimi i tempi morti, gestione dei flashback e somministrazione delle info necessarie all'avanzamento della trama sempre attento a non annoiare lo spettatore. Pochi, pochissimi effetti speciali, quasi nulli. La regia è tutta concentrata sui volti e sulle emozioni che da essi traspaiono, molto spesso le parti più significative sono quelle in cui non parla nessuno, dove sono espressioni e gesti a fare la differenza. Musiche azzeccate e sequenze della giusta durata, mai troppo lunghe, completano il tutto senza mai strafare. Un plauso alla scena in cui i “Guilty Remnants” escono dalla casa in slow motion, pronti per la loro missione finale, sulle note di “Nothing else matters” dei Metallica rifatta in versione classica dagli Apocalyptica.



I personaggi principali:

Capo di Polizia Kevin Garvey (Justin Theroux)

Lo guardi ed è un uomo normale, l'americano medio, quasi uno sfigato. Però ha il fisico di un atleta ed è tatutato dal collo alla vita, e allora inizi a rispettarlo. Pillole per dormire, pillole per stare sveglio, occhiali da sole, uniforme e ciuffo sulla fronte. Un padre in manicomio, un figlio scappato di casa, una moglie che lo ha mollato per unirsi a una setta di sciroccati e una figlia che lo incolpa di tutto questo. Kevin Garvey è un serbatoio ambulante di dolore, rimorsi e violenza repressa che si muove attraverso una realtà che gli è sfuggita di mano da troppo tempo, il prototipo dell'antieroe che cerca sempre di fare la cosa giusta e finisce inevitabilmente con l'incasinarsi ancora di più. Theroux gli dona una tristezza spesso disarmante con il suo sguardo da cane bastonato, salvo poi diventare una macchina da guerra quando la rabbia che ha dentro esplode. Theroux potrebbe seriamente vincere qualche premio per questa interpretazione. Vedremo.



Laurie Garvey (Amy Brenneman)

Mia madre era una grande fan del giudice Amy, una serie TV che andava sulla Mediaset anni e anni fa. Il giudice Amy era un po' frigida, un po' rompipalle, ma giusta. Usciva con vari tipi, era innamorata di uno, giudicava i criminali con umanità, li condannava e poi ci stava male e per tirarsi su di morale finiva a letto con qualcuno. La impersonava Amy Brenneman, che qui ritroviamo nei panni di Laurie, moglie di Kevin Garvey. Unitasi a una setta dove è proibito parlare ed è obbligatorio fumare, Laurie ha subito il dolore della “Dipartita” a un livello più profondo di chiunque altro, uno shock che l'ha spezzata dentro fino al punto di convincerla ad allontanarsi dai propri cari. Laurie si è arresa. Laurie ha sofferto troppo. Ha scelto la strada che tanti, sconfitti da un dolore insopportabile, scelgono. La Brenneman in The Leftovers non parla. La Brenneman è un disatro di rughe e capelli in disordine, perfetta per il ruolo di una donna cui non frega più nulla di se stessa e del mondo. Grande prova di recitazione. Odore di premio anche qui.



Tom Garvey (Chris Zylka)

Figlio nato dal primo matrimonio di Laurie, Chris si è allontanato da Mapleton per unirsi alla congrega di un sedicente guaritore che lo usa come tuttofare e guardia del corpo. Chris è uno spiantato dal buon cuore, combattuto tra la fedeltà al suo mentore e l'affetto verso la ragazza che ha giurato di proteggere, troppo giovane per capire dove sta la verità e troppo ingenuo per tenersi fuori dai guai. Buona interpretazione di Zylka, in quello che sarà forse un ruolo di lancio per la sua carriera.



Jill Garvey (Margaret Qualley)

Personaggio un po' stereotipato della figlia arrabbiata col padre, arrabbiata con la vita, arrabbiata con se stessa e col mondo, ma comunque ben tratteggiato. Jill si fa di droghe, va alle feste, si impegna per fare incazzare un padre che ritiene responsabile di tutto quello che è capitato. Personaggio discretamente interpretato da questa giovane attrice con buone potenzialità, prototipo della teenager ribelle e tormentata con seri problemi di asocialità.



Reverendo Matt Jamison (Christopher Eccleston)

Un mattatore. Un prete che cerca di salvare le anime della sua città e al contempo diventa nemico di tutti, mette in giro dei volantini che gettano fango sulla reputazione dei “dipartiti” e si prende più botte di Bruce Willis in un episodio di “Die Hard”. Personaggio ambiguo impossibile da non amare, interpretato da un attore consacrato da cinema e TV (The Others, Doctor Who tra gli altri). Il terzo episodio, Two Boats and a Helicopter, è interamente dedicato a lui, ed è uno dei migliori dell'intera prima stagione.



Megan Abbott (Liv Tyler)

Una donna che alla vigilia del suo matrimonio decide di mandare tutto a farsi benedire e di unirsi al culto dei “Guilty Remnants”, di cui Laurie fa parte. La sua iniziazione non sarà facile, il suo distacco dal mondo passerà attraverso crisi di coscienza, pentimenti e improvvise esplosioni di rabbia. Liv, tutta occhioni blu ed espressioni spaurite, fa del suo meglio per tratteggiare il personaggio forse meno a fuoco della serie, finendo con il fare un lavoro decente ma comunque un po' penalizzato dalla mancanza di un ruolo fondante nella storia.



Le tematiche:

L'elaborazione del lutto

Se guarderete The Leftovers aspettandovi che il mistero della “Dipartita” venga risolto commetterete un errore. La domanda qui non è dove sono andati i dipartiti, né perché sono scomparsi, ne quando o se torneranno. Quello che la serie racconta è come cercano di sopravvivere quelli che sono rimasti, il processo di assimilazione della perdita e di accettazione dell'abbandono cui prima o poi ogni essere umano deve approcciarsi. La “Dipartita” altro non è che una metafora della morte, quella cosa definitiva e inspiegabile con cui non sono i defunti a dover fare i conti, ma i vivi che restano, con le loro domande, i loro ricordi e la loro pena. In questo The Leftovers centra il bersaglio in pieno. Se invece siete di quelli che cercano il finale con “tutto spiegato” resterete delusi.



La famiglia

La famiglia è una cosa difficile da mandare avanti, un delicatissimo meccanismo basato sull'integrazione di elementi instabili e differenti, il cui equilibrio versa in un perenne stato di instabilità pronto ad andare in pezzi quando il destino cambia le carte in tavola. Ma la famiglia è una delle cose più forti che abbiamo, tutto quello cui ci aggrappiamo quando il mondo ci crolla intorno. Kevin Garvey è l'emblema di questo assunto, un uomo che ha delle colpe, uno che poteva comportarsi diversamente, un marito senza più una moglie e un padre fallito che nonostante tutto non getta la spugna. La famiglia è praticamente tutto ciò che gli resta, e lotta per riaverla, testardo come un mulo. Sua controparte nella storia è Nora Durst (interpretata dalla brava e bella Carrie Coon), una donna cui l'intera famiglia è scomparsa nel giorno della “Dipartita”. Nora vive nel ricordo straziante del marito e figli, spariti nel volgere di un secondo, e per lei non c'è possibilità di tornare indietro. La famiglia di Kevin, invece, è ancora qui, e lui vuole riprendersela. Il messaggio sembra chiaro: finché quelli che ami respirano ancora, puoi fare di tutto per aggiustare le cose. Perché quando invece se ne vanno è troppo tardi, e ti restano solo le lacrime.



La religione

The Leftovers dedica uno sguardo attento alla religione, intesa come tentativo di spiegare l'ineluttabilità della morte e rimedio contro il dolore. Dai “Guilty Remnants”, disillusi eremiti in bianco, a Santo Wayne (Paterson Joseph), sedicente santone che guarisce la disperazione e ingravida ragazzine asiatiche cercando di generare il nuovo messia, fino al reverendo Jamison, la serie non molla il colpo su quello che è un aspetto importante, comunque la si veda, della nostra vita. L'uomo ha bisogno della religione, è il suo stesso istinto di sopravvivenza che lo porta a credere che ci sia qualcosa che spieghi tutto, un posto dove la gente va quando scompare. La religione vista dunque come fenomeno sociale e rimedio terapeutico, più che come professione di fede, ultimo baluardo contro i mali del mondo. Ma la religione, in The Leftovers, non sembra essere la risposta, tanto che i personaggi più religiosi sono anche quelli più infelici, ambigui e in alcuni casi cattivi.



Bene, fine di questo lungo articolo. Spero di avervi un po' incuriosito su The Leftovers, vi consiglio davvero di guardarlo. Vista così può sembrare una serie “pesante” e un po' deprimente, ma ci sono anche momenti di humor in cui si sorride, sebbene non tantissimi. Non è una serie per tutti, è una serie che fa riflettere mentre appassiona, che porta a porsi delle domande. Aspettiamo fiduciosi la seconda stagione, prevista per l'anno prossimo. Nella terza puntata del blog credo che parlerò un po' di Dublino. Cheers!






















2 commenti:

  1. Se hai letto la mia recensione sai che concordo su tutto. Una serie che è stata davvero la miglior sorpresa dell'anno. Credo sia la messa in scena del dolore più dolce a cui abbia mai assistito. È straziante l'idea di una perdita così totale e il telefilm riesce a comunicare quel tipo di sensazione.
    Non rimane che attendere la prossima serie magari assaggiando qua e là (lo speciale di Natale di Black Mirror potrebbe valere la pena, e anche la seconda di Black Orphans).

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  2. Black Mirror in verità non l'ho guardato se non per le prime puntate, forse perché non mi attirava l'idea di episodi staccati. Black Orphans non l'ho visto ma lo metterò in lista. L'unica paura che ho è che The Leftovers si rovini con la seconda stagione. Incrociamo le dita.

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