Io e Ray al pub Matt Weldon's
Questo per dire che Ray esiste, non me lo sono inventato. Ora parliamo però d'altro. Parliamo di serie TV.
In questo periodo passo per lavoro otto
ore al giorno (nove il sabato) davanti a uno schermo. Ne consegue che
la suddetta attività di piantare gli occhi su un monitor, per essere
continuata nel tempo libero, deve trovare una giustificazione più
che solida nella qualità di ciò che guardo. La qualità, a mio
parere, al giorno d'oggi sta tutta nelle serie TV. Da tempo i
migliori sceneggiatori, attori e perfino registi hanno abbandonato il
grande schermo per concentrarsi sulle serie TV, che permettono un
respiro dello storytelling più ampio e possono ormai contare su uno
zoccolo duro di appassionati che con costanza ingrossa le fila di una
legione di spettatori stufi delle vaccate che il cinema continua a
proporre. Cioè, ragazzi, i Transformers. I remake dei remake dei
remake di film usciti trent'anni fa. Questi cazzo di supereroi a cui
non sembra mai esserci una fine, che guardi la locandina e speri che
qualche nemico li sbudelli nei primi dieci minuti di film, e invece
vicono sempre e non gli si guasta nemmeno la messa in piega. Vabe',
opioni personali, totalmente opinabili. Tanto per dire che preferisco
le serie TV, comunque, che raramente mi deludono e se sono davvero
fortunato si rivelano dei piccoli capolavori.
Una premessa: guardare le serie TV
doppiate è come scopare con il preservativo: ci si perde metà del
divertimento. Mi rendo conto che non tutti masticano l'inglese e per
qualcuno leggere i sottotitoli può essere noioso, ma il mio
consiglio è di sforzarsi comunque. Un esempio su tutti, il primo che
mi viene in mente: Boardwalk Empire. Una volta ascoltata la voce di
Steve Buscemi non riuscireste a sentirlo doppiato nemmeno con tutta
la buona volontà del mondo, semplicemente perché quella voce
assurda è parte integrante della sua recitazione, esattamente come
gli occhi da pesce morto e il fatto che abbia le rughe da quando
andava al liceo. Tra parentesi: Steve Buscemi si è consacrato alla
storia con Boardwalk Empire. Ne parlerò più avanti.
Bene, l'anno sta ormai per finire e di
serie TV ne ho guardate tante. La migliore del 2014, a mio parere, è
stata The Leftovers. Spuntata quasi dal nulla, ma con il
marchio di garanzia della HBO, questa serie basata sull'omonimo
romanzo di Tom Perrotta mette sul tavolo tante di quelle buone carte
da vincere la partita anche contro avversari più blasonati. Prendete
una trama accattivante, piazzateci dentro buoni attori, aggiungete
una regia convincente, tematiche profonde e una buona dose di
violenza e il gioco è fatto. Non è una ricetta particolarmente
nuova, non sembra molto difficile, eppure non tutte le serie TV sono
capaci di reggere per dieci episodi senza l'ombra di un cedimento.
The Leftovers ci riesce. The Leftovers ti prende alla gola fin dalla
prima scena e non ti molla fino ai titoli di coda dell'episodio
finale, lasciandoti lì a pregare che arrivi presto l'anno prossimo
per vedere come continua. Ma ora addentriamoci un po' di più nei
dettagli.
La Trama:
Il 14 ottobre del 2011, in quello che
sembra l'inizio di una giornata qualsiasi, il 2% della popolazione
mondiale scompare nel nulla. 140 milioni di persone che erano lì un
momento prima semplicemente cessano di esistere, cancellati dal
pianeta nel volgere di un battito di ciglia. Il fenomeno ha incidenza
globale, le statistiche non offrono nessuna base di indagine,
l'assoluta casualità delle scomparse è l'unica certezza. Nessuna
spiegazione, nessun indizio su cosa sia stato di questa gente, le teorie
religiose e scientifiche si rincorrono e nuovi culti nascono da
questa tragedia, cercando di sopperire con la fede alla mancanza di
elementi empirici. Tre anni dopo il mondo cerca ancora di
risollevarsi dallo shock, i sopravvissuti e tutti quelli che hanno
perso una persona cara tentano di tirare avanti come meglio possono.
La cittadina di Mapleton, nello stato di New York, è stata
pesantemente colpita dalla “Improvvisa Dipartita”. È
qui che è ambientata la serie, che segue le vicende di alcuni
personaggi e la loro lotta quotidiana contro un ricordo
incancellabile e straziante.
La
tecnica:
Gli
episodi sono diretti, come accade spesso nelle serie TV, da diversi
registi. Tra essi spiccano nomi certo non estranei al mondo delle TV
series come Peter Berg (che recitò in Chicago Hope e fa anche un
cameo in uno degli episodi da lui diretti), Keith Gordon (regista di
svariati episodi di Dexter dal 2006 al 2010), Lesli Linka Glatter
(Twin Peaks, tra le altre cose), Carl Franklin (Rome, Falling Skies,
House of Cards), Mimi Leder (ER), Michelle MacLaren (Hell on Wheels,
The Walking Dead), Daniel Sackheim (Law&Order, The Walking Dead).
L'omogeneità è assoluta, non un cedimento dalla prima all'ultima
puntata, grande lavoro di squadra. Sceneggiatura impeccabile affidata
alla supervisione di Perrotta, pochissimi i tempi morti, gestione dei
flashback e somministrazione delle info necessarie all'avanzamento
della trama sempre attento a non annoiare lo spettatore. Pochi,
pochissimi effetti speciali, quasi nulli. La regia è tutta
concentrata sui volti e sulle emozioni che da essi traspaiono, molto
spesso le parti più significative sono quelle in cui non parla
nessuno, dove sono espressioni e gesti a fare la differenza. Musiche
azzeccate e sequenze della giusta durata, mai troppo lunghe,
completano il tutto senza mai strafare. Un plauso alla scena in cui i
“Guilty Remnants” escono dalla casa in slow motion, pronti per la
loro missione finale, sulle note di “Nothing else matters” dei
Metallica rifatta in versione classica dagli Apocalyptica.
I
personaggi principali:
Capo
di Polizia Kevin Garvey (Justin Theroux)
Lo
guardi ed è un uomo normale, l'americano medio, quasi uno sfigato.
Però ha il fisico di un atleta ed è tatutato dal collo alla vita, e
allora inizi a rispettarlo. Pillole per dormire, pillole per stare
sveglio, occhiali da sole, uniforme e ciuffo sulla fronte. Un padre
in manicomio, un figlio scappato di casa, una moglie che lo ha
mollato per unirsi a una setta di sciroccati e una figlia che lo
incolpa di tutto questo. Kevin Garvey è un serbatoio ambulante di
dolore, rimorsi e violenza repressa che si muove attraverso una
realtà che gli è sfuggita di mano da troppo tempo, il prototipo
dell'antieroe che cerca sempre di fare la cosa giusta e finisce
inevitabilmente con l'incasinarsi ancora di più. Theroux gli dona
una tristezza spesso disarmante con il suo sguardo da cane bastonato,
salvo poi diventare una macchina da guerra quando la rabbia che ha
dentro esplode. Theroux potrebbe seriamente vincere qualche premio
per questa interpretazione. Vedremo.
Laurie
Garvey (Amy Brenneman)
Mia
madre era una grande fan del giudice Amy, una serie TV che andava
sulla Mediaset anni e anni fa. Il giudice Amy era un po' frigida, un
po' rompipalle, ma giusta. Usciva con vari tipi, era innamorata di
uno, giudicava i criminali con umanità, li condannava e poi ci stava
male e per tirarsi su di morale finiva a letto con qualcuno. La
impersonava Amy Brenneman, che qui ritroviamo nei panni di Laurie,
moglie di Kevin Garvey. Unitasi a una setta dove è proibito parlare
ed è obbligatorio fumare, Laurie ha subito il dolore della
“Dipartita” a un livello più profondo di chiunque altro, uno
shock che l'ha spezzata dentro fino al punto di convincerla ad
allontanarsi dai propri cari. Laurie si è arresa. Laurie ha sofferto
troppo. Ha scelto la strada che tanti, sconfitti da un dolore
insopportabile, scelgono. La Brenneman in The Leftovers non parla. La
Brenneman è un disatro di rughe e capelli in disordine, perfetta per
il ruolo di una donna cui non frega più nulla di se stessa e del
mondo. Grande prova di recitazione. Odore di premio anche qui.
Tom
Garvey (Chris Zylka)
Figlio
nato dal primo matrimonio di Laurie, Chris si è allontanato da
Mapleton per unirsi alla congrega di un sedicente guaritore che lo
usa come tuttofare e guardia del corpo. Chris è uno spiantato dal
buon cuore, combattuto tra la fedeltà al suo mentore e l'affetto
verso la ragazza che ha giurato di proteggere, troppo giovane per
capire dove sta la verità e troppo ingenuo per tenersi fuori dai
guai. Buona interpretazione di Zylka, in quello che sarà forse un
ruolo di lancio per la sua carriera.
Jill
Garvey (Margaret Qualley)
Personaggio
un po' stereotipato della figlia arrabbiata col padre, arrabbiata con
la vita, arrabbiata con se stessa e col mondo, ma comunque ben
tratteggiato. Jill si fa di droghe, va alle feste, si impegna per
fare incazzare un padre che ritiene responsabile di tutto quello che
è capitato. Personaggio discretamente interpretato da questa giovane
attrice con buone potenzialità, prototipo della teenager ribelle e
tormentata con seri problemi di asocialità.
Reverendo
Matt Jamison (Christopher Eccleston)
Un
mattatore. Un prete che cerca di salvare le anime della sua città e
al contempo diventa nemico di tutti, mette in giro dei volantini che
gettano fango sulla reputazione dei “dipartiti” e si prende più
botte di Bruce Willis in un episodio di “Die Hard”. Personaggio
ambiguo impossibile da non amare, interpretato da un attore
consacrato da cinema e TV (The Others, Doctor Who tra gli altri). Il
terzo episodio, Two Boats and a Helicopter, è interamente dedicato a
lui, ed è uno dei migliori dell'intera prima stagione.
Megan
Abbott (Liv Tyler)
Una
donna che alla vigilia del suo matrimonio decide di mandare tutto a
farsi benedire e di unirsi al culto dei “Guilty Remnants”, di cui
Laurie fa parte. La sua iniziazione non sarà facile, il suo distacco
dal mondo passerà attraverso crisi di coscienza, pentimenti e
improvvise esplosioni di rabbia. Liv, tutta occhioni blu ed
espressioni spaurite, fa del suo meglio per tratteggiare il
personaggio forse meno a fuoco della serie, finendo con il fare un
lavoro decente ma comunque un po' penalizzato dalla mancanza di un
ruolo fondante nella storia.
Le
tematiche:
L'elaborazione
del lutto
Se
guarderete The Leftovers aspettandovi che il mistero della
“Dipartita” venga risolto commetterete un errore. La domanda qui
non è dove sono andati i dipartiti, né perché sono scomparsi, ne
quando o se torneranno. Quello che la serie racconta è come cercano
di sopravvivere quelli che sono rimasti, il processo di assimilazione
della perdita e di accettazione dell'abbandono cui prima o poi ogni
essere umano deve approcciarsi. La “Dipartita” altro non è che
una metafora della morte, quella cosa definitiva e inspiegabile con
cui non sono i defunti a dover fare i conti, ma i vivi che restano,
con le loro domande, i loro ricordi e la loro pena. In questo The
Leftovers centra il bersaglio in pieno. Se invece siete di quelli che
cercano il finale con “tutto spiegato” resterete delusi.
La
famiglia
La
famiglia è una cosa difficile da mandare avanti, un delicatissimo
meccanismo basato sull'integrazione di elementi instabili e
differenti, il cui equilibrio versa in un perenne stato di
instabilità pronto ad andare in pezzi quando il destino cambia le
carte in tavola. Ma la famiglia è una delle cose più forti che
abbiamo, tutto quello cui ci aggrappiamo quando il mondo ci crolla
intorno. Kevin Garvey è l'emblema di questo assunto, un uomo che ha
delle colpe, uno che poteva comportarsi diversamente, un marito senza
più una moglie e un padre fallito che nonostante tutto non getta la
spugna. La famiglia è praticamente tutto ciò che gli resta, e lotta
per riaverla, testardo come un mulo. Sua controparte nella storia è
Nora Durst (interpretata dalla brava e bella Carrie Coon), una donna
cui l'intera famiglia è scomparsa nel giorno della “Dipartita”.
Nora vive nel ricordo straziante del marito e figli, spariti nel
volgere di un secondo, e per lei non c'è possibilità di tornare
indietro. La famiglia di Kevin, invece, è ancora qui, e lui vuole
riprendersela. Il messaggio sembra chiaro: finché quelli che ami
respirano ancora, puoi fare di tutto per aggiustare le cose. Perché
quando invece se ne vanno è troppo tardi, e ti restano solo le
lacrime.
La
religione
The
Leftovers dedica uno sguardo attento alla religione, intesa come
tentativo di spiegare l'ineluttabilità della morte e rimedio contro
il dolore. Dai “Guilty Remnants”, disillusi eremiti in bianco, a
Santo Wayne (Paterson Joseph), sedicente santone che guarisce la
disperazione e ingravida ragazzine asiatiche cercando di generare il
nuovo messia, fino al reverendo Jamison, la serie non molla il colpo
su quello che è un aspetto importante, comunque la si veda, della
nostra vita. L'uomo ha bisogno della religione, è il suo stesso
istinto di sopravvivenza che lo porta a credere che ci sia qualcosa
che spieghi tutto, un posto dove la gente va quando scompare. La
religione vista dunque come fenomeno sociale e rimedio terapeutico,
più che come professione di fede, ultimo baluardo contro i mali del
mondo. Ma la religione, in The Leftovers, non sembra essere la
risposta, tanto che i personaggi più religiosi sono anche quelli più
infelici, ambigui e in alcuni casi cattivi.
Bene,
fine di questo lungo articolo. Spero di avervi un po' incuriosito su
The Leftovers, vi consiglio davvero di guardarlo. Vista così può
sembrare una serie “pesante” e un po' deprimente, ma ci sono
anche momenti di humor in cui si sorride, sebbene non tantissimi. Non
è una serie per tutti, è una serie che fa riflettere mentre
appassiona, che porta a porsi delle domande. Aspettiamo fiduciosi la
seconda stagione, prevista per l'anno prossimo. Nella terza puntata
del blog credo che parlerò un po' di Dublino. Cheers!
Se hai letto la mia recensione sai che concordo su tutto. Una serie che è stata davvero la miglior sorpresa dell'anno. Credo sia la messa in scena del dolore più dolce a cui abbia mai assistito. È straziante l'idea di una perdita così totale e il telefilm riesce a comunicare quel tipo di sensazione.
RispondiEliminaNon rimane che attendere la prossima serie magari assaggiando qua e là (lo speciale di Natale di Black Mirror potrebbe valere la pena, e anche la seconda di Black Orphans).
Black Mirror in verità non l'ho guardato se non per le prime puntate, forse perché non mi attirava l'idea di episodi staccati. Black Orphans non l'ho visto ma lo metterò in lista. L'unica paura che ho è che The Leftovers si rovini con la seconda stagione. Incrociamo le dita.
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