Rieccoci. Il blog non è morto. È
solo che è il mio blog, ed essendo la mia vita soggetta a ritardi,
impegni, orari fissi, sbalzi d'umore e cambi di interessi d'ogni
tipo, ogni tanto viene lasciato da parte e deve aspettare, a volte
pure per un mesetto. Non sono un blogger, non nel senso stretto del
termine, quindi mi perdonerete, spero. Che poi se qualcuno 'sto blog
lo legge io mica lo so, però lo scrivo lo stesso, via, se non altro
per impratichirmi con la tastiera inglese del nuovo portatile.
Oggi
parliamo di un libro, va'. Il libro me l'ha regalato un collega
(grazie, Renato), l'ho letto in lingua spagnola e il titolo originale
è El pintor de batallas (Il pittore di battaglie
nell'edizione italiana). L'autore è il bravo e conosciuto Arturo
Pérez Reverte, di cui ho apprezzato altri romanzi in passato.
Scrittore,
giornalista, corrispondente di guerra, Pérez Reverte ha uno stile
semplice, quasi "umile", che rifugge il "colpo a
effetto" e i funambolismi stilistici, preferendo incentrarsi sul
procedere della storia e la caratterizzazione dei personaggi, sempre
attento alla coerenza storica di ciò che narra nei suoi romanzi,
sovente ambientati in epoche passate. Questo è più o meno il suo
marchio di fabbrica, ma in El pintor de battallas lo
troviamo alle prese con un'analisi psicologica più profonda, uno
scavare nell'animo del protagonista fino a metterne in luce gli
aspetti che gli interessano.
La
trama:
Ex-appassaionato
di pittura, ex-fotografo di guerra pluriacclamato e pluripremiato,
l'ambiguo, solitario e cinico Faulques si è ritirato a vivere in una
torre diroccata che affaccia sul Mediterraneo, all'interno della
quale sta dipingendo, solo per se stesso, un enorme affresco su muro
che rappresenta la guerra. Si tratta di una battaglia che va oltre il
tempo, in cui eserciti appartenenti a varie epoche storiche si
massacrano in quella che, nella sua intenzione, deve essere la
rappresentazione finale di quel che lui chiama "ordine del
caos", la matematicità dello sterminio che come un'equazione
innegabile trova da millenni la sua risoluzione nell'atto umano di
uccidersi l'un l'altro. Faulques è tornato a dipingere dopo aver
capito che la macchina fotografica non gli avrebbe mai permesso di
cogliere quanto di brutalmente vero e perfetto c'è nella guerra, e
ha deciso di riprendere in mano i pennelli per liberarsi da questa
ossessione. Ma l'ha fatto anche per cercare di seppellire il ricordo
di Olvido, la sua donna e collega fotografa, morta in circostanze
tragiche mentre si trovava insieme a lui nei Balcani durante la
guerra.
Faulques
dipinge, nuota, va in paese a comprare provviste, fino a quando nella
sua vita irrompe il croato Ivo Markovic. Si tratta di un ritorno dal
passato, un volto da lui fotografato e subito dimenticato durante
quella maledetta guerra che sembrava simile a tutte le altre, un
volto che gli è pure valso un premio. Markovic è lì per uccidere
Faulques, ma prima vuole capire alcune cose, vuole fargli alcune
domande. Il romanzo, in circa trecento pagine e con soli due
personaggi e mezzo (il "mezzo" è per Olvido, che
conosciamo tramite i flashback di Faulques) racconta molte cose e
mette parecchia carne al fuoco.
Recensione:
Recensione:
"Questo
libro è lento" ha detto Renato. "Non l'ho finito. Si perde
in elucubrazioni, in voli pindarici, è tutto basato sui dialoghi e i
flashback."
Da
queste sue parole ho dedotto che il libro gli avesse maciullato i testicoli, cosa di cui il buon Peréz Reverte non sarebbe proprio contento, però l'ho preso e l'ho letto lo stesso, e
alla fine sono rimasto soddisfatto. El pintor de batallas è
un libro con un suo perché e molti significati, un libro che invita
a riflettere sull'arte intesa come scopo ultimo e unico della vita,
come ossessione che annichilisce ogni altro aspetto dell'uomo. Sì, è
lento, ma vale la pena leggerlo. Vediamo perché.
Il
protagonista, Faulques, è un nuon-uomo, uno che non vive, ma esiste.
Esiste per portare a termine l'affresco e carpire anche solo per un
attimo le geometrie nascoste del caos, e per farlo in gioventù si è
donato anima e corpo alla più totale rappresentazione del caos
stesso: la guerra. Ha visto e fotografato orrori indicibili senza
battere ciglio, ha cercato l'inquadratura migliore mentre a pochi
passi da lui prigionieri venivano torturati, giustiziati, umiliati
prima che gli si togliesse la vita. Con Olvido sempre al suo fianco,
è divenuto totalmente insensibile alla morte, al punto che questa
sua condizione ha finito per uccidere la donna che amava (o che era
convinto di amare). Faulques è un assassino e lo sa, anzi è peggio
di un assassino; è un testimone di guerra con il biglietto di
ritorno in tasca, uno che va sui luoghi degli eccidi come un guardone
andrebbe nei parcheggi a spiare gli altri che scopano. Ha fotografato
la morte come altri avrebbero fatto con un tramonto o un paesaggio
marino, senza scomporsi, senza cambiare metodo neppure quando la
tragedia lo ha toccato personalmente. L'affresco, le geometrie del
caos, questo è ciò che conta, e anche quando Ivo Markovic arriva e
gli racconta del dolore e delle perdite che ha subito per colpa sua
non batte praticamente ciglio.
L'arte,
la ricerca di essa, è una maledizione, sembra volerci dire Pérez
Reverte. In Faulques vive l'archetipo dell'artista che cessa di
essere umano nel momento in cui si sacrifica alla sua ricerca della
creazione perfetta, un demone che trasforma la persona in mero
attrezzo di carne atto a reggere un pennello, una penna, una macchina
fotografica, uno strumento musicale. C'è una critica in questo, o
sembra esserci; non si può fare arte in questo modo, non si può
attraversare il mondo alla ricerca dell'epifania definitiva e
scegliere di ignorare la vita, le storie e le persone che del mondo
fanno parte e che quell'epifania contribuiscono a creare. Evitare di
farsi coinvolgere, questa è la regola di Faulques. Anche nell'amore,
perché l'artista deve mantenere il controllo sempre e comunque. È
un perdente Faulques, uno che avrebbe fatto meglio a cercarsi un
lavoro dalle nove alle cinque in qualche ufficio, perché tutti i
premi vinti e tutte le guerre viste non sono riusciti a fargli capire
nulla di quella atroce realtà che Markovic, fantasma di un conflitto
disumano come pochi altri, gli sbatte in faccia fumando una sigaretta
dopo l'altra mentre ricorda che alla fine della storia lo manderà a
dormire coi vermi.
Markovic
e Olvido sono i due fantasmi, appunto, che tentano di riportare
Faulques indietro, fino alla sua umanità, alle emozioni che ha
perso, fino a capire che si poteva e si può vivere diversamente.
L'uno è vivo e gli parla di ciò che ha subito per colpa della foto
che lui gli scattò, l'altra esiste ormai solo nella sua memoria
("Olvido" in spagnolo significa "oblio", ed è un
nome fortemente ossimorico). Markovic e Olvido, parlando a Faulques da piani spaziali e
temporali diversi, minano la sicurezza del pittore di battaglie fino
a farlo vacillare, fino a fargli comprendere quanto inutile, sciocca,
fine a se stessa sia stata la sua ricerca delle geometrie
imperscrutabili del caos. L'arte ha un senso fino a quando è
inserita nella società, nella vita, fino a quando è pensata e
prodotta per essere apprezzata dagli altri. Diversamente, l'arte è
masturbazione, ossessione, diventa una gran puttanata a cui nessuno
crede più e alla quale nesuno si interessa, la bugia dell' "artista
con una missione", dell' "artista totale". Markovic,
un ex-meccanico costretto a combattere una guerra fratricida, uno che
visto ogni tipo di orrore e subito ogni genere di violenza, spoglia
Faulques di questi finti vestiti che s'è cucito addosso, lasciandolo
nudo davanti alla sua pochezza prima della notte decisiva in cui i
due, nel buio dei boschi intorno alla torre, si confronteranno per
l'ultima volta.
Il
finale sorprende, ed è assolutamente coerente con quello che Péerez
Reverte vuole dirci in questo libro, che a esser lento è lento, ma
per il resto è assolutamente meritevole.
Consigliato a chi ha voglia di qualcosa di diverso, e a quanti là fuori si considerano artisti.
Un saluto. Il prossimo post, si spera, non sarà così lontano nel tempo.
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