"Buongiorno."
"Guarda, sto malissimo. Ho la febbre, il mal di testa, a stento mi reggo in piedi."
"Ah. Se usi un bicchiere mettilo da parte in maniera che non ci beviamo noi per sbaglio. Ed è arrivata la tassa per la televisione. Sono cinquantacinque euro a testa da pagare entro fine mese."
"Sticazzi."
"Come?"
"Niente. Un augurio italiano."
Passerà anche l'influenza. Intanto almeno mi riposo.
Oggi parliamo di Derek Raymond. Ci sono scrittori che non sono
fenomenali, che non hanno uno stile che ti fa saltare dalla sedia,
che non raccontano storie megagalattiche, eppure riescono a
reinventare i generi letterari. “Reinventare” sta per trovare
nuovi spunti e nuove tematiche quando si crede che ormai il genere
abbia detto tutto quello che aveva da dire, una nuova prospettiva da
cui guardare la stessa materia che è stata ormai presentata in tutte
le salse. Negli anni '80 Derek Raymond reinventa il genere noir
e lo ripresenta alle masse da un'angolatura diversa, meno incentrata
sull'azione e più sull'introspezione, dando alle stampe i cinque
libri del Ciclo della Factory che poi saranno pubblicati in Italia a
partire dal 1993 dalla mitica casa editrice Meridiano Zero.
Derek Raymond è lo pseudonimo di
Robert William Arthur Cook (1931- 1994), autore londinese dalla vita
che sembra essa stessa un romanzo. Animo inquieto e anticonformista,
Cook manda ben presto a farsi fottere la società e le sue regole,
decidendo di viaggiare per il mondo e di sostentarsi come capita.
Vive in Italia, Spagna, Olanda, Marocco, Turchia. Fa il
contrabbandiere d'opere d'arte, l'insegnate d'inglese e il tassista,
si mette a vendere materiale pornografico, partecipa a corse d'auto
illegali, finisce in galera per aver criticato Francisco Franco in un
bar. Nel 1960 torna a Londra e due anni dopo pubblica The crust on
its uppers con cui si impone all'attenzione della critica, poi lascia
di nuovo l'Inghilterra e trascorre quasi tutto il decennio in Italia,
dove vive in una comunità anarchica proclamatasi stato indipendente
che lo nomina ministro degli esteri e delle finanze. Nel 1970 ritorna
di nuovo a Londra, dove si sposa per la terza volta, si mette a
lavorare come tassista e adotta lo pseudonimo di Derek Raymond. Sarà
con esso che nel 1984 pubblicherà E morì a occhi aperti, il primo
dei cinque romanzi del Ciclo della Factory.
La “Factory” è il nome con cui i
poliziotti chiamano la sezione “delitti irrisolti” di Scotland
Yard, la peggiore di tutte, quella dove non vuole lavorare
nessuno. Ai “delitti irrisolti” non si fa carriera, i casi
riguardano poveracci di cui non frega nulla a nessuno e i
finanziamenti per le indagini arrivano con il contagocce. È
qui che lavora il Sergente Senza Nome, uomo dal passato drammatico
e dalle ferree convinzioni, un antieroe convinto che le vittime, per
quanto insignificanti siano, meritino giustizia e dignità.
Osteggiato da un collega con cui verrà spesso ai ferri corti e
aiutato da un burbero ma giusto superiore con cui comunica solo al
telefono (“La Voce”, lo chiama), il Sergente Senza Nome si muove
in una Londra tatcheriana marcia e miserabile fino alle fondamenta,
una società dove l'essere umano va progressivamente trasformandosi
in bestia e gli istinti peggiori vengono lasciati liberi per le
strade in cui scorrono fiumi di sangue e pioggia. Barcamenandosi tra
il lavoro, una vita privata segnata all'atroce perdita della figlia
e dall'internamento dell'ex-moglie e una solitudine senza speranza,
il Sergente Senza Nome sguscia come un'ombra tra tossici, punk,
criminali di tutti i tipi, assassini, serial killer, puttane. Non è
uno sbirro dal grilletto facile e non ha un fiuto eccezionale, ma
possiede una qualità che forse vale più di tutte: conosce l'animo
umano.
Ed
è l'animo umano, fin dal primo libro, che rappresenta l'argomento
principale di questi romanzi. Le vittime così come gli assassini
sono analizzati da Raymond attraverso gli occhi del suo protagonista
con una profondità sconcertante, una vera e propria discesa
nell'inferno della coscienza fino a raggiungere quei recessi nascosti
e inconfessabili nei quali la scintilla di pulsioni oscene si tramuta spesso nell'incendio della follia e della violenza. Raymond è
considerato l'antesignano di Ellroy; ora, molte delle tematiche e dei
modi di affrontarle potranno apparire superate e perfino scontate a
chi è familiare con il genere, ma è indubbio che qui riposano le
fondamenta del moderno noir. In particolare Raymond si concentra,
attraverso gli sforzi del Sergente Senza Nome, sul duplice obbiettivo
di ricostruire le vite spezzate dei morti che incontra sul suo
cammino e di indagare la mente malata degli assassini, fino a
giungere al nocciolo della loro pazzia dove risiede quella che la
filosofa Hannah Arendt chiamava “la banalità del male”. Non c'è
alcun fascino nei serial killer del Ciclo della Factory: sono solo
individui che credono di compiere qualcosa di speciale per
sopravvivere alle loro frustrazioni e ai traumi che li hanno resi
quello che sono, e una volta che il Sergente li mette a nudo di loro
non resta che la patetica immagine di piccoli uomini buoni a
null'altro che a spegnere le altrui esistenze. Se però credete che
una cosa del genere non abbia il suo prezzo sbagliate: per ogni caso
che risolve, per ogni vittima cui restituisce una qualche giustizia,
per ogni folle omicida con cui si confronta, il Sergente Senza Nome
perde un pezzo di se stesso, tornando al suo squallido monolocale con
sempre meno voglia di vivere. Il mondo è un posto schifoso quando il
tuo lavoro è rimestare nella melma, e il Sergente abbandona poco a poco
ogni speranza di felicità, finendo con il tuffarsi anima e corpo nei
suoi casi per tenersi lontano dal vuoto che lo circonda.
Dei
cinque romanzi (ce n'è anche un sesto, Quando cala la nebbia rossa,
ma è più che altro un'appendice e non ha lo stesso protagonista),
il primo è anche il più lento. E morì a occhi aperti è una sorta
di manifesto di Raymond del noir così come lo intende lo scrittore,
una lunga ricostruzione della vita di un uomo trovato morto
attraverso l'ascolto dei nastri cui affidava i suoi pensieri. Non
succede molto, non ci sono grandissimi colpi di scena. C'è tanto
dolore, c'è la meschinità degli assassini e c'è Londra così
com'era a quei tempi, brutta e violenta e governata dalle leggi della
sopravvivenza a ogni costo. Oh, non che sia cambiata poi tanto in
trent'anni, fidatevi.
Con
i seguenti romanzi il ciclo dà il meglio di sé. Aprile è il più
crudele dei mesi ci offre un drammatico sguardo sulla vita privata
del Sergente mentre indaga su un killer che bolle in pentola le sue
vittime, mentre in Come vivono i morti incontreremo un amore
disperato che pretende di andare al di là della morte trasformandosi
in folle ossessione. Il mio nome era Dora Suarez è di una durezza
obbiettivamente difficile da sopportare e mescola il modus operandi
di un serial killer bestiale con la tematica dell'AIDS molto sentita
in quegli anni, per finire con Il museo dell'Inferno che rappresenta
il degno riassunto e conclusione del ciclo.
Il
Ciclo della Factory non è facile da leggere, e non è una lettura di
intrattenimento. Lo stile di Raymond, come detto, non è pirotecnico,
ma va dritto al punto e ci guida attraverso il più doloroso dei
misteri, che spesso non è la morte, bensì la vita. Ne consiglio la
lettura a chi vuole mettersi alla prova con qualcosa di diverso,
tenendo presente che si tratta più di romanzi di approfondimento
psicologico che di veri e propri noir.
Troppo tardi per non farsi fregare dall'influenza, almeno per me. Comunque grazie per la segnalazione, non conoscevo Raymond ma mi hai incuriosito moltissimo. P.s. rimettiti presto!
RispondiEliminaQuando torno in Italia se vuoi ti presto i libri :)
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